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Abitare, abitarsi, lasciarsi abitare

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Abitare, abitarsi, lasciarsi abitare

La casa, noi, l'altro

BalenalaB
Feb 12
14
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Abitare, abitarsi, lasciarsi abitare

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Ho affrontato 7 traslochi in 15 anni. Statisticamente, quasi uno ogni due anni. 7 case, 7 città, 7 vite diverse.

Un nuovo lavoro, nuovi amici, una nuova storia d’amore, nuovi locali in cui dire “Il solito”, nuovi riferimenti spazio-temporali. E attraverso le cose e le persone di cui mi sono circondata, l’opportunità di costruire la mia identità. Le case poi. Le case sono laboratori di comprensione e di trasformazione da cui possiamo partire per ripensare noi stessi e il mondo che abitiamo. Le case, d’altronde, senza qualcuno che le abiti, non esisterebbero. 

***

Ho trascorso molta della mia infanzia in parrocchia e all’interno del suo teatro. Nel tragitto fino alla chiesa, c’era una casa bellissima su più piani che a me sembrava un castello. Una volta, passando di lì con la mia amica Matilde, avevo detto, ci eravamo promesse, che se non ci fossimo sposate saremmo andate a vivere insieme in questa casa, con 5 gatti, gli stessi che c’erano allora e che ogni tanto trovavamo sul muretto a prendere il sole. Accettò, dicendo che almeno un cane lei lo avrebbe voluto. Glielo concessi.

Avevamo 8 anni e senza saperlo, avevo inventato un modernissimo concetto di co-housing. 

A quei tempi, avevo le idee molto chiare su come una casa si potesse condividere con chi ci pareva e su come potesse diventare un luogo di creazione e di possibilità. Chissà quando è successo che l’ho fatta diventare un fortino in cui proteggermi. Heidegger, in ogni caso, sarebbe stato fiero di me.

“Nei primi due decenni del novecento Adolf Loos, architetto austriaco e pensatore tra i più influenti nella costruzione del pensiero moderno sull’abitare, teorizza il Raumplan, ovvero la capacità dello spazio architettonico di essere generato dal suo interno come espressione del carattere e della personalità dei committenti. La casa diventa voce psicanalitica di chi la desidera e di chi la progetta.”

- Le case che siamo, Luca Molinari

Nel 1951 a Darmstadt, in occasione di una conferenza, Martin Heidegger espone la sua teoria sul rapporto tra costruire e abitare. A suo avviso, l’essenza del costruire consiste nel far abitare. Per lui era necessario abitare in modo poetico: non vivendo in una abitazione solo per esigenze pratiche o fisiologiche, ma dando valore all’atto dell’abitare, considerando la vita vissuta a casa propria come un fatto interiore e profondo legato alla propria identità. Più che la casa, esiste il far casa. Più che imparare ad abitare, si rende necessario imparare ad abitarsi. L’azione che esercitiamo sugli ambienti e quella che gli ambienti esercitano su di noi, creano un rapporto dialogico dove l’uno non può prendere significato e identità senza il rapporto con l’altro. 

Casa dormitorio, casa invisibile, casa albergo, casa lavoro, casa rifugio, casa sacra, casa famiglia, casa inferno, casa prigione. Analizzare le nostre case e il rapporto che tessiamo con esse diventa un punto d’accesso inedito e privilegiato alla comprensione del nostro sé. 

L’anno scorso ho comprato un appartamento a Parigi e ho pure affrontato una ristrutturazione. La trasformazione di uno spazio estraneo e senza ricordi, in casa propria, è un processo affascinante.

C’è sicuramente un lato estetico evidente, ma quello che c’è sotto è la creazione di uno spazio estensione delle nostre personalità.

Emanuele Coccia, nel suo libro Filosofia della casa dice a un certo punto:

“è il trasloco che fa la casa […] È casa quello spazio in cui tutti gli oggetti esistono come soggetti”.

Nel libro racconta di come in uno dei suoi tanti traslochi, senza oggetti nella casa, la casa fosse invivibile. Senza letto, senza cucina, senza libri o divano, sono gli oggetti che sono dentro la struttura casa che fanno la casa. Sono le cose che strappiamo al mondo per mettercele vicine, per abitarle, non il soffitto o il pavimento. Ci accolliamo un trasloco per vivere meglio: quegli scatoloni racchiudono il segreto di ciò che ci serve per essere felici.

Quando pensiamo alla parola “casa” arrivano dolcezze, rimpianti, dolori, gesti, odori e segreti che si sono scolpiti nella nostra memoria grazie alla quotidianità con cui li abbiamo vissuti. I luoghi fissano ciò che ci è accaduto dentro di loro. Le case non sono solo luoghi in cui trascorriamo parte del nostro tempo, in cui teniamo i nostri oggetti, ma sono contesti che prendono significato grazie alla relazione che creiamo con loro. Finisce che buttando giù muri e scegliendo un vaso color carta da zucchero, stiamo definendo una parte per niente secondaria del nostro io. Abitare condivide con abito una radice importante. Entrambi ci proteggono, entrambi in qualche modo ci rappresentano. Ci costruiamo mentre costruiamo le nostre case. E nessuna casa è mai finita, non smettiamo mai di costruirla, perché mai finiamo di costruirci.

Agli antipodi dalle considerazioni heideggeriane, c’è il pensiero di Jacques Derrida il quale, dice assolutamente no all’abitare come scopo del costruire e ritiene invece preferibile costruire per creare uno spazio di condivisione, aperto all’altro e alla creatività. Porte e finestre, per lui, servono proprio a questo: a formare uno spazio in divenire, che chiamerà Chora, un luogo per la creazione, da tutto attraversato ma che nulla trattiene. Nella soglia, spesso incarnata da porte e finestre, c’è la stessa ambivalenza che c’è nella frontiera, si tratta di un luogo d'incontro e contemporaneamente di un luogo di separazione. L’antropologo Ugo Fabietti ce lo dice: è “qualcosa che nel momento in cui separa, unisce.” 

Ho sempre considerato la casa un luogo intimo e rivelatore. La casa mi fa sentire scoperta perché si apre alla lettura di chi la attraversa e per questo apre anche me alla lettura dell’altro. Per questa ragione, la disponibilità a far varcare la soglia ad altre persone è stata sempre limitata a pochi eletti. Le cose sono cambiate con la convivenza, proprio venendo a Parigi. La casa è diventata Chora senza perdere la sua funzione di costruzione di identità. Ho lasciato che fotografassero la mia casa, che ne facessero un video, che diventasse location per shooting. È stato un esperimento di apertura verso il mondo, vedere come andava, come mi sentivo, uscire dal guscio insieme alla mia casa. 

Roberto, il mio compagno, è un derridiano, per lui è un fattore etico accogliere l’altro nella casa, farsi abitare, prendersene cura rispondendo anche della sua eccentricità. È stato lui ad aprirmi il varco per fare entrare amici, conoscenti, a volte sconosciuti (e ne sono passati pure un bel po’ di eccentrici). 

Nel macro, ci ha pensato Airbnb a fare il resto. Ad azzerare le differenze tra casa e hotel. A cancellare il confine tra il pubblico e il privato, tra la città e la casa. E poi Uber e i coworking e i living diffusi, e in generale tutti i posti con il wi-fi in cui puoi fermarti a lavorare. È il modello capitalistico che ce lo suggerisce: tutto il pianeta è una casa da abitare, da attraversare, da consumare.

La casa può essere laboratorio di conoscenza di sé e luogo dell’incontro con l’altro. Il luogo in cui possono succedere le cose private ma anche le cose pubbliche. In cui ritrovare il piacere di essere a nostra immagine e di metterci in relazione con il mondo.

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