In fin dei conti, come facciamo a sapere che due più due fa quattro? O che la forza di gravità esiste davvero? O che il passato è immutabile? Che cosa succede, se il passato e il mondo esterno esistono solo nella vostra mente e la vostra mente è sotto controllo?
George Orwell
Siamo la specie che parla. Lo facciamo tutti senza nemmeno pensarci. Usiamo suoni organizzati per dare informazioni al gruppo di individui che ha il nostro stesso sistema di segni: combiniamo le parole (il lessico) grazie a regole grammaticali (sintassi) per formare delle frasi.
A differenza del linguaggio animale che è
naturale e istintivo
costituito da pochi segnali identici per la stessa specie
una reazione automatica con poca o nessuna evoluzione
Il linguaggio umano è
una convenzione
ampio e in espansione
cambia, si trasforma ed evolve nel tempo
Sì, le lingue che parliamo si basano su convenzioni, cioè su una forma di creazione arbitraria, tuttavia, la capacità umana di produrre e interpretare messaggi linguistici sembra essere innata. Nei bambini, il linguaggio è un'abilità complessa ma spontanea. Sanno parlare come un ragno sa tessere la sua tela e sviluppano questa attitudine naturale attraverso il contatto con un ambiente più o meno incline alla parola. Resta da capire come questa capacità si sia consolidata nel corso dei millenni per portarci a questo punto qui, dentro l’Immersione di questa domenica mattina. È probabile che le prime organizzazioni sociali dell'Homo sapiens, abbiano richiesto un mezzo di comunicazione rudimentale che, una cosa dopo l'altra, ha dato origine alle lingue. Su come sono nate le lingue, c’è questo podcast molto interessante de Il Post, L’invasione: racconta, incrociando linguistica e mitologia, archeologia e genetica, del protoindoeuropeo, la lingua originaria da cui discendono molte delle lingue che parliamo in Europa, l’indi, la lingua più parlata in India, e il farsi, cioè il persiano. Le persone che la diffusero si portarono dietro una serie di miti, un certo modo di pensare, un’idea molto precisa di società fatta di uomini al comando.
Dicevamo. Mentre l'organizzazione e i processi neurologici necessari per il linguaggio nel primo Homo Sapiens sono innati e comuni a tutte le specie, è il legame sociale e culturale che può aver giocato un ruolo determinante nello sviluppo della neocorteccia necessaria per parlare. Vuol dire che tutti abbiamo lo strumento dentro di noi, ma è per gli altri, con gli altri, grazie agli altri, che sviluppiamo il nostro linguaggio.
Definire il linguaggio in sé è utile, ma è ancora più utile se guardiamo alle sue funzioni: pensare e comunicare. E questo è l'inizio del miracolo, ma anche l'inizio dei problemi. Cosa vogliamo dire agli altri? E perché? Stiamo davvero comunicando ciò che pensiamo? Come possiamo evitare di tradire i nostri pensieri? So davvero cosa penso fin quando non gli ho dato una forma a parole? Come possiamo farci capire? Ma poi, le nostre parole descrivono davvero la realtà?
Il linguaggio umano, ha una capacità magica che sottovalutiamo di continuo: ci permette di evocare qualcosa in sua assenza.
Ce lo ricorda Ferdinand de Saussure, linguista svizzero, per cui il linguaggio è una rappresentazione della realtà. Per spiegarlo fa l’esempio dell’albero. La parola albero non ha nulla a che fare con l'albero stesso, è una pura convenzione. I parlanti di una lingua, in questo caso l’italiano, associano la parola albero a una cosa con un tronco, dei rami e delle foglie. Il segno (le lettere in sequenza a-l-b-e-r-o) dell'albero non ha nulla a che fare con il significato, cioè con l'albero reale. E questa è la differenza tra segno e simbolo, poiché il simbolo imita la cosa che simboleggia e il segno no.
Ma se il linguaggio è una costruzione, significa che possiamo cambiare le regole in qualsiasi momento. Cosa succederebbe se una mattina ci svegliassimo e la parola albero significasse piumone?
La difficoltà sta nel mettersi d'accordo sulle parole che usiamo e sul loro significato. La lingua ci fa accedere alla comprensione di un patrimonio culturale con tutte le difficoltà che ciò comporta. Siamo tutti d'accordo sulle parole che usiamo? Siamo tutti d'accordo sul loro significato?
John Austin è stato il primo che, attraverso le lezioni raccolte in Quand dire, c'est faire a rivelare che un parlante agisce sull'ambiente attraverso le parole che usa. Richiama la nostra attenzione sullo scopo delle frasi che pronunciamo. Infatti, quando le frasi non descrivono la realtà, a cosa servono? Cosa succede, per esempio, quando battezziamo o sposiamo una coppia? Diciamo: ti battezzo o ti sposo. Il fatto di dire provoca un'azione, un fare, una realtà. Io ti sposo e le persone davanti a me sono sposate. Con questo esempio, Austin dimostra che il linguaggio, oltre a descrivere la realtà, può anche agire sulla realtà e sugli individui che la compongono. Le parole fanno accadere cose.
C'è poi Ludwig Wittgenstein, che ha scritto un testo strano ma affascinante, il Tractatus logico-philosophicus, in cui spiega che il linguaggio serve solo a descrivere i fatti. Certo, questa concezione scientifica non è divertente, né poetica, ma evita la confusione e la soggettività. E soprattutto evita la manipolazione. Siamo nel 1929 quando Wittgenstein scrive e il 1929 vide l'ascesa delle ideologie praticamente ovunque. C'era una retorica nazionalista che metteva le persone l'una contro l'altra, politici che producevano argomentazioni che sembravano chiare e coerenti quando in realtà erano basate su aria fritta.
Per Wittgenstein e per tutti i membri del Circolo di Vienna, la riforma del linguaggio non è solo una questione filosofica, ma un'emergenza politica. Inoltre, l'ascesa del nazismo costrinse l'intero gruppo del Circolo di Vienna a lasciare la città: molti di loro erano ebrei, temevano per la loro vita. Alcuni andarono in Inghilterra, altri in Francia o negli Stati Uniti, ma tutti erano animati dallo stesso desiderio: tornare a un linguaggio che dicesse qualcosa sulla realtà.
Supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c’è qualcosa che noi chiamiamo ‘scarabeo’. Nessuno può guardare nella scatola dell’altro; e ognuno dice di sapere cos’è uno scarabeo soltanto guardando il suo scarabeo. Ma potrebbe ben darsi che ciascuno abbia nella sua scatola una cosa diversa. Si potrebbe addirittura immaginare che questa cosa mutasse continuamente. Ma supponiamo che la parola ‘scarabeo’ avesse tuttavia un uso per queste persone! Allora non sarebbe quello della designazione di una cosa. La cosa contenuta nella scatola non farebbe parte in nessun caso del gioco linguistico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe essere vuota.
Ludwig Wittgenstein
Wittgenstein utilizza questo aneddoto per spiegare uno dei problemi più spinosi della filosofia del linguaggio: come possiamo essere sicuri di parlare della stessa cosa quando usiamo una parola?
Se si tratta di uno scarabeo, la risposta potrebbe essere quella di mostrarlo come si è mostrato l'albero. Ma se si tratta di qualcosa che non può essere mostrato direttamente? Se si tratta di amore, per esempio. Come possiamo essere sicuri che l'amore nascosto nelle scatole degli altri sia lo stesso nascosto nelle nostre scatole? Il contenuto della nostra scatola è noto solo a noi. Questo è ciò che Wittgenstein chiama il “significato privato” insieme all'immagine mentale che gli associamo. Questo significato e questa immagine mentale cambiano a seconda della nostra cultura, della nostra età, della nostra educazione, delle nostre esperienze, del nostro stile di vita e delle nostre emozioni. L'amore non è la stessa cosa per persone diverse. Ma se ogni parola ha un significato privato, come possiamo comunicare con gli altri? Significa che la condivisione è impossibile?
Io credo proprio il contrario. Credo nella necessità di insegnare ai bambini a raccontare, descrivere e spiegare cosa c'è nella loro scatola. Siamo tutti esseri diversi, ma possiamo condividere ad alta voce le nostre differenze e farci strada verso gli altri. Forse, poi, va a finire che potremmo scoprire che i nostri scarabei si assomigliano.
Il discorso non è solo un messaggio da decifrare, è anche un prodotto che consegniamo perché sia accolto dagli altri. Da quel momento in poi, siamo di continuo riportati alla domanda: cosa vogliamo dire e perché? Cosa ci è rimasto in gola? Cosa non stiamo dicendo per paura di essere mal interpretati, giudicati, derisi?
Osiamo dire ciò che vogliamo dire. Permettendo alle nostre parole di andare contro l'opinione, il conformismo e la banalizzazione. Paure, luoghi comuni, abitudini, tutto ciò che ci imprigiona. Essere umani significa anche osare parlare contro il potere, contro i prepotenti, contro i tabù, contro la mediocrità. Siamo la specie che parla. Usiamo la lingua per definire un pensiero, un sogno, un credo, un bisogno, un disaccordo, un dolore, un futuro immaginato. Usiamola, esiste per creare mondi più larghi in cui stare.
Grazie per queste bellissime parole. Mi ha davvero emozionato e aperto un mondo questa puntata. 🥰✨🌈🥰