Cosa ci infetta le arterie e ci soffoca
invece di farci andare a dormire?
Cosa ci tiene in ostaggio il respiro?
È un demone e non serve a niente.Baustelle, L’arte di lasciare andare
C'è stato un periodo, fino a un paio di settimane fa, in cui ho creduto che la mia storia d’amore potesse salvarsi con la forza della mia tenacia. Ho tenuto, stretto, ho dribblato negatività per mesi. Con ostinazione. Non volevo lasciar andare. Mi sembrava di rinunciare alla parte migliore di me. Alla parte migliore di noi.
A un certo punto, però, davanti alla sua decisione, mi sono dovuta arrendere e ho dovuto fare i conti con questa calma improvvisa, e non so come spiegarlo, con un certo sollievo. Non dovevo più battermi. Non ero più nel limbo, ora avevo una direzione chiara.
Non tutto dipende da noi. Nemmeno se ci mettiamo tutta la forza, tutto l'amore, tutta la precisione possibile. L'intenzione non basta a modificare gli eventi. Ma è ciò che ci salva.
Mentre mi leggi sto iniziando a imbiancare casa nuova. Dopo una settimana di lavori e i soliti ritardi dei materiali, un letto da montare che mi aspetta minaccioso appoggiato alla parete e montagnette di scatoloni e buste da sistemare, ce la sto facendo.* Ma ho l’impressione, nonostante tutto questo trambusto fuori che ciò che si sta spostando di più è in me, più che fuori di me. Smetterò di abitare nella vecchia casa, ma ho già smesso di abitare un'idea.
Nel caos del trasloco, tra oggetti fuori posto e identità sospese, mi è ricapitato tra le mani Marco Aurelio. I Colloqui con sé stesso. Un libro segnato da appunti sparsi, sottolineature irregolari, di tutti i colori improbabili che gli evidenziatori degli anni ‘90 potevano produrre. L'ho riaperto senza ricordarne niente e, a questa frase, ho subito pensato che me l’avesse inviata il cosmo:
Tutto nasce e si compie secondo la ragione universale,
che è giusta per sua natura e non compie mai il male.
Qualsiasi cosa significhi per te, anche senza credere fermamente che sia così, consola. E allo stesso tempo toglie ogni alibi.
Se seguiamo lo stoico Marco Aurelio non ha senso domandarsi: cosa pensi? Ma piuttosto: come vivi? Dove ti collochi, ogni giorno, rispetto a ciò che accade?
Lasciare andare, in questa cornice, non è una forma di abbandono, ma l'esercizio più radicale della lucidità. Vedere ciò che non dipende da noi e rinunciare alla pretesa di controllarlo, non significa rassegnarsi. Significa assumere una posizione esatta, quella che permette di agire con precisione lì dove siamo chiamati a farlo. L'accettazione è rigore e anche rischio.
Questa posizione interiore, che i testi stoici indicano come prohairesis, una intenzionalità, una volontà scelta, è ciò che definisce l'identità. Non le emozioni, non i ruoli, non i legami ma la capacità di scegliere come rispondere. Di discernere. Di tenere il timone anche nella tempesta. Di darci una certa continuità.
In genere, chi scopre lo stoicismo senza passare per studi di filosofia lo fa per necessità, nel mezzo di una crisi esistenziale. Praticare una saggezza antica, prenderla sul serio, considerare un autore morto da secoli come un amico eccezionale e lucido, fidarsi abbastanza da trasporre ciò che diceva nel proprio linguaggio presente e soprattutto nei propri gesti, è qualcosa che può davvero cambiare la vita. Nel quotidiano non ci si trova sempre, per fortuna, in una crisi esistenziale, per questo una delle pratiche che possiamo applicare già da ora è concentrarci sulla motivazione, più che sul risultato.
Ricordarsene quando si incontra un ostacolo cambia profondamente il nostro modo di vedere le cose e può farci immaginare soluzioni inaspettate.
I filosofi stoici usano l'immagine dell'arciere. Il suo compito è tendere l'arco e mirare con cura. Tutto il resto, il bersaglio colpito o mancato, non dipende più da lui. Se il vento cambia, se la corda vibra, se la freccia sbaglia traiettoria, non è un fallimento. L'intenzione, la postura, l'esattezza del gesto: è lì che si gioca la virtù. L'etica stoica valuta l'azione non in base all'esito, ma alla volontà che l'ha generata. E mi viene da dire che non c'è responsabilità più grande di questa.
È così che prendiamo le distanze da qualunque logica del risultato. Nell’epoca in cui ogni scelta è valutata sulla base di ciò che produce, di quanto converte, di quanto si trasforma in ritorno, i filosofi antichi ci ricordano che il valore di un’azione non risiede nella sua efficacia ma nella sua intenzione. Non è il centrare il bersaglio a fare la differenza, ma il gesto che abbiamo portato a termine per tentare di raggiungerlo. È per questo che mi sento in qualche modo rasserenata pensando che, rispetto alla mia storia, ho fatto tutto quello che potevo. Ogni gesto parlava della volontà di costruire ancora che c’era dietro. Anche se non è bastato.
Questo non significa deresponsabilizzarsi. Non significa ignorare le conseguenze. Significa, piuttosto, ancorare la responsabilità in un punto diverso: non nell’effetto, ma nella coerenza tra ciò che siamo e ciò che facciamo.
La filosofia stoica presuppone, anche se non lo dice esplicitamente, qualcosa di immenso: gli eventi sono inseparabili dalle emozioni che suscitano, e viceversa. L’esterno e l’interno sono sempre connessi. In ogni circostanza, siamo liberi di ignorare questo legame, oppure di riconoscerlo e celebrarlo. Contemplare questo legame spinge all’azione, apre una strada.
Lo stoicismo è una filosofia per gli estremi. Una filosofia per l’abisso. È capace di liberare tanto lo schiavo quanto l’imperatore: Epitteto e Marco Aurelio. Possiamo intuire le loro ferite e i loro conflitti proprio nei rimedi che scelgono.
I principi che ci fanno bene sono spesso quelli che danno forma e misura alle nostre ombre. Conosco molte persone attratte dallo stoicismo: sono tutte, senza eccezioni, persone intense, appassionate, che si curano attraverso l’introspezione e l’approfondimento dell’identità che per me è e rimane un esercizio affascinante, una pratica viva e terapeutica. Marco Aurelio scrive per se stesso, per stabilizzare la parte migliore di sé, quella che chiama il suo genio, per dialogare con lei, per restarle accanto. Questo scavo interiore è un lavoro continuo che si rinnova a ogni scoperta permettendo una maggiore comprensione degli altri e una maggiore benevolenza verso sé. Nei corsi di scrittura autobiografica che propongo parto da questo presupposto: si scrive per identificare le proprie motivazioni, legarle ai valori che danno senso all’esistenza.
Marco Aurelio non ci promette nulla, né a sé né a noi, il suo non è mica un manualetto di crescita personale. Non crede che, se sarà saggio, il mondo si conformerà al suo volere. Non pensa che essere liberi significhi ottenere o diventare ciò che si desidera. Per lui, essere liberi significa volere ciò che è. E “ciò che è” non è una situazione, una persona, un evento specifico. È l’universo intero riflesso nell’istante presente. “Ciò che è” è inconoscibile. E proprio nel suo approfondimento si trovano felicità e senso. È in quel movimento verso il fondo, verso il cuore della realtà, che troviamo libertà. A patto di lasciare che la nostra personale volontà si pieghi davanti a qualcosa che la supera.
C'è una frase di Lacan che ho sentito recentemente pronunciata da Massimo Recalcati:
La sola cosa di cui ci si possa sentire colpevoli,
è di aver ceduto sul proprio desiderio.
Desiderio e non capricci, eh. Lacan parla di quella forza antica, quel sussulto interiore che ti dice: “Questo è ciò che ti muove, questo è ciò che ti manca.” E se lo ignori, se lo disinneschi per paura o per pudore, tradisci te stessa, te stesso. La colpa, allora, non è morale, è ontologica: hai smesso di essere chi sei.
Non sto dicendo che ogni desiderio vada seguito, ma che ogni desiderio va ascoltato, questo sì. Per sapere chi ci abita, per sapere da dove veniamo, anche quando ci stiamo allontanando, per sapere, soprattutto, dove non possiamo più restare.
Forse il desiderio non è altro che questo: un vettore. Qualcosa che non scegliamo. Qualcosa che ci attraversa. Che ci chiede soltanto una cosa: non ostacolarlo. Possiamo prenderlo in parola o possiamo seppellirlo sotto pile di argomenti razionali ma non smetterà di spingerci. E non c'è fatica più sterile di quella che facciamo per negare ciò che, in fondo, sappiamo da sempre.
Il pensiero stoico, nell’accettazione del destino, potrebbe sembrare una coccola che facciamo al nostro animo ferito che ha la coda della volpe, quella della volpe e l’uva. Al contrario, il pensiero stoico è un pugno nello stomaco che arriva con la gentilezza di chi sa dove colpire. Ti dice: non ti salverai, ma puoi restare intero, intera.
E allora, in questa interezza imperfetta, provo a dipingere i muri del futuro senza fingere che siano nuovi. Sono i miei muri. Con le crepe antiche che ho cercato di riparare, con i quadri storti, con le tracce di tutte le pitture precedenti da imbiancare di nuovo.
Il gesto, non il risultato. L'intenzione, non il premio. Non si agisce perché le cose vadano bene. Si agisce perché è giusto. Perché la coerenza con sé non ha testimoni, ma ha conseguenze e ci tiene in piedi quando tutto intorno vacilla.
Questo movimento non ha nulla di individualistico. Perché la nostra interiorità non è un riparo, è un punto di contatto con l'universo. Lì, in quella cittadella interiore che Marco Aurelio evoca, si esercita una forma di responsabilità non verso il proprio benessere ma verso il proprio posto nel mondo.
Noi nasciamo come esseri umani da questa relazione tra libertà interiore e necessità esterna. Il mondo non è ciò che ci capita, è il contesto in cui ci mettiamo alla prova.
Non c'è nulla di indulgente in questo. Il lavoro su di sé è sempre un lavoro contro sé. Contro le derive, le illusioni, le fughe. Ci si osserva. Ci si accompagna. Ci si ricorda.
L’introspezione, se ha un senso, lo ha qui. In questo esercizio ripetuto, testardo, discreto. Nel reggere, ogni giorno, lo scarto tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. Tra ciò che possiamo fare e ciò che è nelle mani del destino.
Se non lo accetti, ti comprendo. È più facile raccontarsi che si può tutto. Che basti decidere. Ma se fosse vero, nessuno soffrirebbe. Nessuno si sveglierebbe con l’impressione di stare perdendo qualcosa di fondamentale. Nessuno resterebbe immobile davanti alla porta che non sa se vuole davvero aprire o chiudere.
Sto cambiando casa ma il lavoro su di me è lo stesso. Tenere la rotta anche quando la luce cambia e avrò il sole al mattino invece che al tramonto, anche quando la mappa si strappa e dovrò ricostruire il sentiero. Anche quando tutto sembra chiedermi di rinunciare ma io no, io non mi mollo.
*Me lo state chiedendo in molti (ognuno ha la community che si merita), i mici, Bonnie e Claudio, verranno con me. Li avevo presi io 16 anni fa in un gattile di Treviglio (hanno vissuto diversi fidanzati un po’ come i periodi di Picasso, per dire che alla fine, gli uomini passano, i gatti restano).
Le evidenziazioni sarebbe ogni due o tre righe, come le tue sulle parole di Marco Aurelio 😎 C'è stata una persona che ho dovuto lasciar andare riuscendoci ma senza tuttora riuscire del tutto a smettere di abitare quell'idea di un noi che lui suscitava in me. Poi vogliamo mettere le Memorie di Adriano e le parole della Yourcenar che mi hanno fulminato " Quel che mi interessava ...era una tecnica: volevo trovare una cerniera ove la nostra volontà s'articola al destino". Tante risonanze mia cara. Buon trasloco... non tanto fisico: che tu possa abitare idee che nutrono e che siano casa, accoglienza, spazio per crescere e per essere.
Sempre bello leggere ciò che scrivi. Ogni volta è davvero un'immersione :)