L’ultima litigata feroce con mia sorella risale a quattro, cinque anni fa. Durante il pranzo del mio compleanno fece una battuta sottintendo che ero tirchia e che avrei dovuto pagare io il conto.
Qualche settimana fa diverse persone per diversi motivi mi hanno definito generosa.
A gennaio con un gruppo di amici ho fatto un percorso intorno all’abbondanza: esercizi quotidiani per interrogarci su quanto siamo ricchi grazie e al di là del denaro che possediamo e comprendere quali atteggiamenti aggiungono valore alla nostra vita o lo tolgono.
In questi giorni sto aspettando che la banca ci conceda un secondo mutuo per l’appartamento in cui andrò ad abitare. Sento quel fremito misto a mal di pancia: ci riterranno degni?
Sono una sentimentale. Dopo essermi fatta fregare diverse volte ora nel telefono tra i numeri preferiti c’è quello del notaio. Sono diventata pratica (ma continuo a lacrimare a ogni rottura).
Al Karaoke l’altra sera, alcuni sono andati via prima senza pagare le loro consumazioni. Chi è rimasto ha pagato il surplus della sala e i loro cocktail. Io sono una sentimentale, il notaio è pratico, la gente è furba.
Il denaro pervade le nostre vite. Ovunque ogni giorno ci facciamo i conti. Negli ultimi tempi se ne comincia a parlare, almeno nella mia scintillante bolla, ma non è sempre stato così.
Quanto farsi pagare per il proprio lavoro? Cosa siamo disposti ad accettare e per quale somma? Qual è il costo dell’esperienza? Perché guadagnare bene sembra a volte indecente, mentre guadagnarsi da vivere è essenziale? Quante ore di impegno servono per giustificare una cifra? Qual è il prezzo della tranquillità? Cosa compriamo, la nostra libertà? Cos’è davvero un mutuo?
Queste domande sono problemi da ricchi o, al contrario, sono una questione centrale della nostra società? Tra reddito di base e stipendi a sei cifre, tra ozio e precarietà, tra il denaro che lega e quello che libera, parlarne significa intraprendere un’introspezione che va ben oltre la busta paga.
Il denaro non è altro che un mezzo di scambio. Ci puoi pagare una baguette come un Airbus A380. Ed è paradossale. Finché non viene speso, non ci porta nulla. Eppure, è anche la cosa più concreta del mondo: permette l’appropriazione, il godimento, il dominio. Tra tutti gli oggetti che ci circondano, il denaro è quello che unisce le caratteristiche più contraddittorie. Il suo valore dipende dalle fluttuazioni economiche ma anche dalle nostre credenze.
Una somma sul mio conto corrente, è ancora solo una possibilità, un potenziale d’uso che non ho ancora concretizzato in un acquisto. Si potrebbe persino dire che la dimensione possibile del denaro sia superiore al suo valore reale. È ciò che sostiene il sociologo tedesco Georg Simmel nella Filosofia del denaro:
Il valore di una somma di denaro è uguale al valore di ogni singolo oggetto che può acquistare, più il valore della libertà di scelta tra un numero indefinito di oggetti analoghi.
Avere la possibilità di scegliere tra un libro, un biglietto del cinema o una cena significa possedere di più che nel momento in cui si opta per una sola di queste cose. Il denaro non speso rappresenta quindi un valore aggiunto. Con il denaro, un potere potenziale è più grande di un potere realizzato. Ma se non lo spendiamo, a cosa ci serve? Questo valore immaginario, quasi fantastico, del denaro genera comportamenti strani e, bisogna dirlo, quasi sempre malsani.
Il denaro è uno strumento di uguaglianza e libertà, ma anche fonte di dipendenza e disuguaglianza. Se da un lato permette di emanciparsi dalle proprie origini, di liberarsi dai doveri e dai padroni e di progettare il futuro perché tutto si può comprare, dall’altro può ridurre i rapporti umani a meri scambi economici. Se libera, perché pagando non si deve più nulla, crea anche dipendenze, perché costringe a lavorare per guadagnarlo. E, soprattutto, il denaro rischia di produrre una società in cui gli individui sono legati gli uni agli altri solo da interessi economici. Come sintetizza Michel Eltchaninoff, citando Seneca:
Diventati a turno mercanti e merce, non chiediamo più cosa siano le cose, ma quanto costano.
La sua ambivalenza è antica: se siamo cresciuti con una visione negativa del denaro forse è anche “colpa” di Platone che lo condannava già ai suoi tempi perché corrompeva i valori. Platone contrappone due modelli: da un lato, l’insegnamento gratuito e disinteressato di Socrate, dall’altro, la figura venale del sofista, insegnante retribuito che non mirava alla verità assoluta, ma all’arte della persuasione e dell’efficacia retorica.
Ma grazie. Platone proveniva da una famiglia aristocratica e non aveva mai avuto bisogno di lavorare, e poi, se è vero che il denaro può corrompere i rapporti, non è altrettanto giusto che un insegnante venga pagato per il proprio lavoro?
Il prezzo da pagare
Quando tutto viene ridotto a una cifra, il denaro cancella il valore simbolico delle cose. Un pezzo di terra non è più un luogo di vita, ma un investimento. Un regalo non è più un gesto d’affetto, ma un bene con un prezzo. Simmel osserva che, nella società moderna, il valore monetario è diventato l’unico criterio di valutazione. Dimmi quanto costa e ti dirò se mi interessa.
E così, il denaro, da mezzo, è diventato fine. L’ossessione per l’accumulo ha creato un movimento perpetuo verso il "sempre di più". Simmel descrive quattro figure patologiche del denaro:
L’avaro, che accumula ossessivamente senza mai spendere.
Il prodigo, che sperpera per dimostrare di non averne bisogno.
Il cinico, che vede solo il prezzo delle cose, ma non il loro valore.
L’asceta, che fugge dal denaro per paura della sua corruzione.
Ognuno di questi atteggiamenti è una distorsione. Il denaro non è il problema: il problema è il modo in cui lo viviamo. Alla fine, la domanda è: cosa ci permette di fare il denaro? Non dovremmo mai smettere di chiederci quale sia il prezzo giusto per noi e per gli altri. Perché, come in tutte le cose, ciò che ci salva dall’indecenza è l’equilibrio che troviamo tra accumulazione, libertà e legame sociale.
Consumo, dunque sono
La frenesia dell’acquisto spinge ad accumulare oggetti e denaro per acquistarli. La mercificazione delle nostre vite sui social, dei consigli degli influencer, del tempo disponibile, delle nostre case, dei nostri vestiti usati trasformano tutto in una risorsa da sfruttare. Peggiorano le disuguaglianze, perché chi ha meno soffre dell’incapacità di raggiungere lo standard materiale dominante. Senza contare che la monetizzazione di tutto ciò che esiste svaluta le cose migliori della vita: l’amore, l’amicizia, il senso di comunità.
Potremmo autolimitarci evitando gli eccessi. Riportando il denaro alla sua funzione di mezzo, potremmo restituirgli il suo valore tecnico ed evitare di farci trascinare dalle fantasie che gli leghiamo. Ma il denaro che guadagniamo non è destinato solo ai nostri desideri. L’anno scorso nel podcast Ti faremo sapere di Domitilla Ferrari dicevo che accettavo di guadagnare meno per avere più tempo per me. Come me altri sono sicura che, nel cercare un cambio di passo, l’hanno pensato o fatto. Ma il denaro circola tra le persone intorno a noi. Può servire per l’istruzione dei figli, per le cure dei genitori, per aiutare un amico in difficoltà. Da un punto di vista realistico, non risponde sempre a esigenze individuali.
Eppure, anche se siamo consapevoli delle patologie sociali del nostro tempo e riusciamo a elaborare un’etica realistica del denaro, probabilmente non raggiungeremo mai un rapporto del tutto sano con i soldi. Perché il denaro rappresenta la fusione tra l’astratto e il concreto e la nostra relazione è attraversata da pulsioni inconsce. Che siamo asceti, realisti, avari o spendaccioni, il nostro rapporto con il denaro fa parte del nostro modo di stare al mondo.
Il denaro dice davvero qualcosa di noi?
C’è questa convinzione secondo cui il denaro rivela molto su di noi, attraverso ciò che possediamo e ciò che guadagniamo. Le persone costruiscono delle narrazioni su quello che il loro denaro potrebbe dire di chi sono. Proiettano. Il mio valore personale equivale a ciò che guadagno, quindi se dico quanto guadagno, gli altri penseranno che ho più o meno valore. A partire da qui, si osservano possibili comportamenti. Alcuni pensano che dichiarare un alto guadagno possa suscitare invidia e quindi farli sentire meno amati, oppure che gli altri inizieranno a chiedere loro soldi, costringendoli a mostrarsi generosi. In un ambiente modesto, chi guadagna bene può essere visto con sospetto, come se fosse disonesto. Nei contesti benestanti, invece, chi guadagna meno può provare vergogna, sentendo di valere meno se non riesce a generare altrettanto denaro. In Italia rispetto alla Francia ci sono molte più remore nel dire quanto si guadagna, è anche un fattore culturale.
Qualunque sia il proprio reddito, ci sarà sempre qualcuno che guadagna di più e qualcuno che guadagna di meno, ma la paura rimane legata allo sguardo degli altri. O meglio, allo sguardo che abbiamo su noi stessi: non vorremmo che gli altri pensassero certe cose di noi, quindi preferiamo tacere.
E poi ci si mette anche il carattere. Se proviamo insicurezza e abbiamo poca autostima, possiamo aggrapparci al denaro per compensare. Ma questo ci porterà a dover guadagnare sempre di più per sentirci al sicuro. È un meccanismo classico: ho conosciuto persone famose e ricche (ah, i bei tempi della radio) terrorizzate dall’idea di rimanere senza soldi, incapaci di prendere distanza dalla loro paura.
Per quanto riguarda la generosità, la questione è più complessa. Esiste una falsa generosità, dietro cui la persona cerca di comprare qualcosa dagli altri: attenzione, amore, approvazione. Ho iniziato a credere che l’atteggiamento corretto non sia la generosità fine a sé stessa, ma un giusto distacco dal denaro. Senza rifiutarlo, ma vedendolo per quello che è, senza proiezioni. Ha un rapporto sereno con il denaro chi, pur non avendo grandi entrate, è capace di accogliere l’incertezza senza sentirsi in pericolo. Una chimera?
Non siamo la cifra che riceviamo ogni mese per il nostro lavoro. Quanto guadagniamo non dice nulla sulla nostra generosità, sulla nostra capacità di amare o su molte altre qualità. Dice solo che siamo in grado di generare denaro e che abbiamo scelto un lavoro che paga più o meno di altri. E finisce lì.
Il denaro è solo un denominatore comune per attribuire valore alle cose. Il problema non è la sua funzione, ma tutto ciò che ci proiettiamo sopra.
Per cambiare il rapporto con il denaro, bisogna passare per la società e per le trasformazioni individuali. La nostra storia collettiva e familiare ci condizionano, le relazioni con i soldi che abbiamo assorbito: è un processo che richiede tempo. Ma credo che questo cambiamento sia già in atto. Le nuove generazioni vanno verso maggiore trasparenza, giustizia sociale, solidarietà. Certo, è un passaggio difficile, ma la direzione è chiara.
Un buon modo per riflettere sul proprio rapporto con il denaro è chiedersi: se il denaro non fosse un problema nella mia vita, cosa farei di diverso?
Più la risposta è lontana dalla vita attuale, più significa che attribuiamo al denaro il potere di cambiare le cose. Tutto ciò che osiamo fare di nuovo rafforza la nostra convinzione di valere più delle storie che ci raccontiamo su noi stessi.
Si può stare comodi senza stare bene. Si può stare bene senza poter vivere la vita che si desidera. Si può avere la vita che si desidera senza essere felici. Si può essere felici senza avere molta libertà. Si può avere molta libertà senza realizzare niente di grande.
Quando tutto viene ridotto a una cifra, il denaro cancella il valore simbolico delle cose.
come la libertà, che sembra debba comportare sempre la contropartita di un minore introito.
eppure, si può avere libertà senza fare grandi cose. e questo sarà valso la perdita teorica di denaro che avremmo ricevuto in cambio dell'assenza di quella libertà?
credo che rileggerò questo articolo spesso, per continuare a pormi domande a cui adesso non ho modo di rispondere.