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La performance: Dottor Jekyll e Mister Hyde

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La performance: Dottor Jekyll e Mister Hyde

Come Nietzsche mi fa alzare dal letto

BalenalaB
May 29, 2022
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“Dobbiamo uscire dalla zona di comfort.
Dovremmo sempre andare oltre noi stessi.”
Ormai, dovunque ti giri, sembra che nessuno possa rimanere dove sta.

In questo curioso culto della performance, il superamento di sé appare come un modello di esistenza, un traguardo ultimo che ci renderebbe dei potenziali supereroi. Guai a chi resta a leggere sul divano. Ovunque, a scuola, negli affari, nella pubblicità, nello sport agonistico, siamo incoraggiati ad andare oltre i nostri limiti. 

Allo stesso tempo però, ci consumiamo gli occhi davanti agli schermi dei computer, ci spacchiamo di sport duro e puro, riduciamo le nostre ore di sonno, rischiamo tutti il ​​burnout. Ci consumiamo, tra obblighi morali e asticelle sempre più alte.
Allora, tra il troppo e il non abbastanza dove ci posizioniamo?

È quasi un anno che mi interrogo sulla mia motivazione, sul mio posto nel mondo, sul mio lavoro, se lo voglio fare ancora così. È per questo che oggi con voi voglio affidarmi al pensiero filosofico per esplorare la società della performance come l’hanno chiamata Maura Gancitano e Andrea Colamedici.

Il superamento di se stessi

Partiamo dal presupposto che siamo creature abitudinarie e che sono queste abitudini che spesso ci permettono di andare avanti e strutturare la nostra vita quotidiana. Il sicuro lascia spazio a disposizione nel nostro cervello per processare e assimilare le novità. Se tutto cambiasse costantemente, saremmo in uno stress permanente. Impossibile da gestire.

Eppure le abitudini sono anche pericolose. A volte è proprio l’abitudine a farci rimanere in situazioni che non ci soddisfano o addirittura che ci fanno soffrire: fare un lavoro che non ci piace, continuare una storia d’amore che è finita da tempo, frequentare amici con cui non abbiamo più niente in comune.

Da questo punto di vista, il superamento di sé è quindi l'esplorazione del campo delle possibilità al di fuori dei limiti che ci sembrano adeguati o raggiungibili. Questi limiti sono soggettivi, sono unici per ognuno di noi, fissati dal nostro corpo e dalla nostra mente. Ma non importa dove si fissino questi limiti, superare se stessi è soprattutto reinventarsi. 

Nella Grecia Antica, il superamento di se stessi era la caratteristica propria degli atleti: all'eroe dei Giochi Olimpici era richiesta una prestazione eccellente ai limiti della brutalità.

Al contrario, è sulla prospettiva opposta che si fondava il modello educativo delle classi aristocratiche. L'educazione dell’élite si basava sull’imparare a realizzare il proprio potenziale senza oltrepassare i propri limiti e ciò che l'ordine del cosmo aveva previsto per noi. Non dimentichiamoci che nel mondo greco regnano proporzione e armonia ed Epicuro, che parla di pace del corpo e pace della mente, è uno dei rappresentanti migliori questa filosofia. 

Siamo quindi lontani, molto lontani dalla lezione di fitness dove l'insegnante ci urla nelle orecchie sopra una musica infestante di accelerare il ritmo quando siamo già al limite delle nostre energie. Ma cosa è successo dai Greci a noi che ha fatto precipitare la situazione? Abbiamo iniziato a misurare le nostre prestazioni.

Il culto della performance

Il termine performance è legato all'idea di risultato, esprime il grado di raggiungimento degli obiettivi perseguiti. Ma performance vuol dire anche il modo di fare qualcosa, per questo diciamo una performance artistica o sportiva. Quindi performance vuol dire sia raggiungimento di un’impresa, sia il modo in cui si svolge qualcosa. Se il primo aspetto è quantitativo, il secondo è qualitativo. Ed è questa preziosa sfumatura che nel tempo è stata messa da parte a favore della prima.

Negli anni '80, la performance ha guadagnato terreno ed è diventata un pezzo importante dell’ideologia manageriale portandoci a voler tradurre in matematica tutti i fenomeni sociali e umani. Ossessionati dai numeri, siamo caduti in un'ebbrezza insaziabile che ci ha fatto venerare la quantità e dimenticare la qualità.  

L’espressione culto della performance viene inventata dal sociologo Alain Ehrenberg nel 1991. Usando la parola “culto”, insiste sul posto considerevole che un approccio di questo tipo occupa nella società. Non devi solo essere ricco, devi essere molto ricco. Non devi arrivare al traguardo. Devi superare il tuo punteggio personale. 

Da un punto di vista individuale, il culto della performance è sinonimo di superamento di se stessi e desiderio di raggiungere obiettivi sempre più alti. Obiettivi che ci fissiamo noi stessi, perché colleghiamo all’idea di risultato una vita più piena, ricca e felice. Performare è quindi sfuggire alla mediocrità, ancorarsi al presente armati del passato e proiettati verso il futuro. La performance è un modo per fuggire dalle nostre ansie, perché ci costringe a vivere appieno il momento.

Misurare la performance

La realtà però è che tutto questo è diventato una rincorsa in cui da attori consapevoli siamo passati a contabili delle nostre vite. 

Il conta passi, la conta dei follower, la conta dei libri che abbiamo letto, la conta degli incassi delle fatture, ma soprattutto il confronto costante con gli altri. 

Resta il risultato, il dato e scompare il modo che era una parte dell'etimologia della performance. Non importa cosa diciamo su Internet, importa quanti like riceviamo.

La quantità ha la precedenza sulla qualità. La quantificazione della prestazione, in più, modifica l'esercizio stesso dei nostri compiti e i nostri rapporti umani. Intorno all'individuo e alle sue relazioni si organizza un vero e proprio circolo vizioso che si disumanizza progressivamente, tanto che l'unico obiettivo è il risultato. La vittoria, conta più dell'amicizia, dell'amore, della fedeltà e della gentilezza. Non pensiamo più a ciò che ci connette, ma confrontiamo le cifre.

Eppure possiamo misurare la performance da un punto di vista qualitativo: la fiducia di un cliente che ci affida un nuovo progetto, il piacere di bere un caffè con un collega, l’emozione di tagliare il traguardo con il proprio compagno di allenamento. Ma non siamo abituati, è più difficile, non ne vediamo il ritorno di un dato così.

Pubblicare la performance

E non è tutto.

L’idea di una performance per se stessi non interessa. 

La performance prende senso nella vita pubblica. Pubblichiamo i risultati della nostra dieta, quanti km abbiamo corso oggi, fotografiamo la posizione di yoga che siamo riusciti a ottenere, il piatto estetico del ristorante stellato, scriviamo newsletter che sono sbrodolamenti di quanto siamo brave, le nostre storie d’amore e i nostri figli diventano un oggetto di marketing. Comunichiamo ciò che è positivo che accresce la nostra immagine. Non ci sono più attori e spettatori siamo tutti performer. Ciò che è negativo viene eliminato e nascosto, la realtà serve come narrazione utile per i nostri profili pubblici. Per avere performance migliori domani abbiamo bisogno di un pubblico che ci stia a guardare.

La performance contemporanea ha senso solo se è diffusa nella sfera pubblica, è esibizione. Il risultato è che l'immagine restituita conta anche più dell'azione intrapresa. 

La competitività contabile nuoce alla creatività e alla collaborazione, poiché è necessario individuare un vincitore e uno più forte. È così che l'uomo si allontana dal pensiero e dalla qualità, cercando la prestazione sacrosanta e il trionfo sugli altri.

Per uscire da questa spirale, ho chiesto aiuto a Nietzsche.

Il nichilismo attivo

Certo, con la sua salute cagionevole e il suo fisico non certo atletico, è difficile associare Nietzsche alla nozione di performance. Eppure introducendo il concetto di nichilismo mette in luce qualcosa che ci interessa.
Attenzione al termine nichilismo, perché è usato molto spesso erroneamente come sinonimo di distruzione, mentre tra i pensatori tedeschi il nichilismo è molto più sottile e più sfumato.

Nietzsche individua 2 tipi di nichilismo: passivo e attivo.

Il nichilismo passivo è quello che tutti abbiamo sperimentato almeno una volta nella vita e arriva quando non abbiamo più la forza di credere in nulla. Questo nichilismo, secondo Nietzsche, va naturalmente combattuto. È quella che ci spinge verso la totale inattività. È il rammollimento della nostra persona.

Rimaniamo in un lavoro che non ci piace, in un corpo che non ci piace, in una coppia che non ci piace, giusto perché siamo convinti che non c’è un’altra strada possibile.

In “Così parlò Zarathustra”, Nietzsche ci presenta il nichilismo attivo. Ed è qui che inizia l'affascinante opera di ricostruzione. Per disegnare una nuova moralità, sarà necessario rivalutare l’essere, rivalutare la vita sulla terra, troppo a lungo messa da parte dalla religione che fino a quel momento aveva sbilanciato l’attenzione al cielo, alla preghiera, all’astratto.

Secondo Nietzsche ogni individuo ha dentro di sé un'energia che agisce come un motore, che chiama “la volontà di potenza”. Cito:


la vita ai miei occhi è un istinto di crescita, durata, accumulazione, forza, potere. Dove manca la volontà di potenza, c'è declino.

Ed è proprio questo potere che si esprime in qualsiasi sfida della vita quotidiana. 

Sono tracce del nichilismo passivo che ci portiamo dentro, la paura del palcoscenico che proviamo prima di presentare un evento, la paura di non farcela prima di un esame, la pressione prima di una gara importante o prima di un incontro professionale, accompagnata dalla tentazione di tirarci indietro. È un distacco da ciò che stiamo per fare che ci fa venire voglia di stare a casa e buttarci a letto sotto una montagna di coperte. 

Ma se affrontiamo la prova, se entriamo in campo, se ci confrontiamo, se siamo in azione, allora stiamo affermando qualcosa, un potere che qui non è un semplice oggetto di consumo di cui parlavo all’inizio. Stiamo affermando che siamo vivi. E andrebbe tutto bene se non riducessimo le nostre prestazioni e i nostri risultati ai numeri.

Il superuomo

Ma Nietzsche non si ferma qui, ci propone di compiere uno step successivo alla conservazione della volontà in potenza. Non bisogna solo conservarla, bisogna aumentarla, perché allenando costantemente questa forza accediamo allo stato di superuomo.

Non intende un uomo perfetto, preselezionato su criteri genetici, un ideale a cui puntare  allo scopo di far emergere ciò che di più lodevole c’è nell’essere umano. 

L’uomo è un superuomo quando riesce a superarsi.

Al di là delle paure, del comfort, delle abitudini, accogliamo nuovi valori che non scendono dal cielo ma vengono da noi. Rinunciamo all’indifferenza per far vincere la vita. È una spinta a ricercare in noi quello che ci fa avanzare e crescere nel nostro percorso.

Non si tratta quindi di rispondere a un obbligo esterno di una società sempre più dura ed esigente, ma si tratta di ascoltare quello che risuona in noi.

E questo superamento può anche consistere nel dire no, rinunciare a rispondere alla frenesia. 

Tra nichilismo passivo e attivo, la mia proposta è di incarnare chi sei. 

Più che uscire dalla zona di comfort sarebbe il caso di uscire dalla zona di non comfort nella quale ci mettiamo noi stessi credendo di non poter cambiare lo stato delle cose. È in questi casi che il nichilismo passivo tenta di riprenderci.

Il mio augurio è di diventare il superuomo che ognuno di noi merita di essere, di riuscire a superarsi in quel modo che ci permette di essere in armonia con ciò che desideriamo e vogliamo realizzare. Che vuol dire creare dei valori per noi stessi e non per gli altri, concepire il superamento di sé come una invenzione continua e la performance come un indicatore di qualità della vita.

***

Questo mese dentro BalenalaB:

  • ho parlato di bias cognitivi legati al branding

  • ho iniziato una serie di riflessioni nelle stories di Instagram che si chiama Oggetto piccolo (a). Sulla verbal identity, il lunedì.

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