Sto passando più ore su Deezer in questo mese che nell’intero anno. La statistica parla chiaro. Canzoni sul tempo che passa, sulla perdita, sulla solitudine, sulla rottura, sul lutto. La fiera della malinconia, insomma. Che piacere è quel piacere di ascoltare la musica triste?
La catarsi
Aristotele, nella sua Poetica, attribuisce alla musica un potere catartico. La catarsi è il processo che, nella tragedia, serve a purificare lo spettatore dalle sue passioni, liberandolo da un carico emotivo che gli pesa nella realtà. L'essere umano è attraversato da emozioni contrarie e violente. Il teatro o la musica aprono uno spazio sicuro in cui può rivivere queste emozioni per il tempo dello spettacolo, un po' per finta, per metterle a distanza. La musica triste va in questa direzione, producendo una purificazione e un alleggerimento accompagnato dal piacere che ci aiuta a liberarci delle passioni che ci ingombrano e a sistemarci meglio nell'esistenza. Possiede una virtù terapeutica perché mette parole o melodie su emozioni negative: è come un ponte, non cancella l'abisso del dolore, ma permette di attraversarlo. Non elimina la sofferenza, ma le dona una forma, un respiro, una possibilità di esistere senza distruggerci.
L’esperienza estetica
Cantanti e compositrici sono riusciti a mettere parole e note su ciò che non si poteva dire. Sono riusciti a dire molto bene quello che noi avremmo sentito poi. Ci sembra che allora in qualche modo se ne possa uscire, o quanto meno, che non siamo gli unici esseri umani ad aver provato quel grosso disagio.
C’è una sorta di comunione tra la persona che canta/suona e quella che ascolta, c’è il riconoscimento di un'appartenenza a un medesimo gruppo, la community di quelli che sanno cosa vuol dire quella sofferenza lì. La lingua tedesca possiede una parola per evocare un concetto, "Zweisamkeit", solitudine condivisa.
Per il tempo di una canzone, viviamo un'esistenza di fedeltà a noi stessi, come se nella tristezza ci fosse un'impossibilità di ingannare su ciò che si è in quel momento: le maschere della commedia sociale cadono. Chi non si è mai sentito meno solo ascoltando Ne me quitte pas di Brel, trafitto dalla sua sincerità nel raccontare una separazione? Una (buona) canzone triste unisce gli esseri umani, al di là della loro esperienza, età, genere o periodo. E di più: ci dà la possibilità di attraversare il dolore estetizzandolo, di sopportare l'insopportabile. Una canzone triste non risolve il dolore, ma gli dona un linguaggio, una grammatica, una possibilità di esistere.
Così forse amiamo ascoltare canzoni tristi perché per la durata di una canzone possiamo trasformare il dolore in bellezza: questo è il potere che l'essere umano riprende sull'assurdità della vita, facendosi creatore attraverso un ascolto attivo. Come se il ritorno del dolore fosse meno spaventoso una volta che si sa come renderlo magnifico.
Nel libro "Music and the Psychology of Expectation", David Huron esplora in modo approfondito come la nostra mente elabora e risponde alla musica, concentrandosi sui meccanismi psicologici che determinano le nostre aspettative musicali. Secondo Huron l'esperienza emotiva musicale deriva dalla combinazione di diversi sistemi di risposta: previsione, valutazione, preparazione fisiologica, reazione cognitiva e riflessione. Nelle canzoni tristi, questi sistemi interagiscono in modo complesso per generare un'esperienza emotiva profonda. Le canzoni tristi attivano un processo di "dolore simulato" dove l'ascoltatore prova piacere nel vivere un'esperienza emotiva dolorosa in modo protetto e controllato.
Esistono delle strutture musicali che evocano tristezza: Huron identifica alcune caratteristiche musicali associate alle emozioni tristi: le tonalità minori, le progressioni accordali discendenti, il tempo lento, i timbri cupi e profondi, l’utilizzo di intervalli e dissonanze che creano tensione.
Ho chiesto a Francesco, sound designer (anche di BalenalaB) se esiste la musica triste.
La cosa che ha stupito un po' tutti i ricercatori moderni, è che nonostante ambienti naturali, climatici e sociali molto differenti, le risposte emotive degli esseri umani alle stesse stimolazioni musicali sono uguali. Per un europeo, un cinese, un africano o un nativo americano, un accordo di Re bemolle maggiore stimolerà una risposta emotiva chimicamente simile a una perdita di una persona cara. Come un accordo di Re maggiore invece ti darà un senso di invincibilità, magari ricordandoti una vittoria militare di qualche tua vita precedente (se credi in queste cose). Mi minore sarà sempre romantico come lo sguardo di un principe quando scorge per la prima volta la principessa, e Fa diesis maggiore sarà sempre collegato al superamento di un ostacolo. Questa è solo la prima pelle di una complicatissima cipolla di emozioni che possono essere "sbloccate" dalla musica. Ci sono accordi e intervalli (la distanza tra due note) che richiamano santi e diavoli (famoso il "tritono", l'intervallo del diavolo a lungo bandito nella musica medievale europea).
Francesco Bonalume, Reaperiani
L'ascolto di musica triste attiva aree cerebrali associate all'elaborazione del dolore e della perdita, permettendo una sorta di "allenamento emotivo" che ci consente di sviluppare empatia e comprensione delle emozioni complesse.
Il tutto si complica quando si usano questi "colori emotivi" per costruire degli archi narrativi. Recentemente Sting ha ben descritto come per lui la struttura di una canzone pop anni ‘80 sia come una sessione di terapia. C'è una strofa che presenta una situazione di vita vissuta, e un ritornello che ne descrive l'emozione provata. Poi un avanzamento della storia nella seconda strofa e una ripetizione dell'emozione del protagonista, poi c'è un "bridge", un momento di svolta, una riflessione sull'accaduto che ci porta all'ultimo ritornello, che è simile ai primi due, ma c'è qualcosa di nuovo. L'esempio che ha portato è la classica canzone post break-up.
Strofa 1: La ragazza mi ha lasciato
Ritornello: ah quanto l'amavo
Strofa 2: si mi ha proprio lasciato per il mio migliore amico
Ritornello 2: ah quanto l'amavo
Bridge: ma forse sto capendo che alla fine sono anche una bella coppia dopotutto
Ritornello 3: ah quanto l'amavo, ma sono sicuro che potrò anche io trovare un amore altrettanto bello in futuroÈ l'emozione di partenza del protagonista ma leggermente modificata dall'esperienza maturata nella storia che ha raccontato nella canzone.
Francesco Bonalume, Reaperiani
La consolazione
Sono inconsolabile. La musica, sia quella che ascolto che quella che compongo, come anche la scrittura e la letteratura, quella che leggo e ciò che scrivo non lenisce il mio dolore, almeno non ne ho mai avuto l’impressione.
Scrivere non consola, rende il dolore palpabile, vivo a sua volta, più presente e ora anche fuori di me. Una sorta di tradimento per chi cerca di distanziarsi dalla sofferenza. Eppure, proprio attraverso questa apparente inutilità, il suo racconto diventa un inno alla fragilità umana. Scegliere la vita, senza negare la perdita, bensì onorandola, accogliendo il vuoto.
La consolazione non colma la breccia aperta dalla perdita. Riconosce e mantiene viva quella ferita, dando un senso a ciò che manca. Per quella che è la mia esperienza del dolore, so che scrivo non per colmare il vuoto, ma per accettare che rimanga aperto, trasformando la me inconsolabile in un’esperienza viva. Piango una morte, una rottura, perché amplifichi il peso della mia stessa finitudine. Ecco, la musica e la scrittura sono amplificatori di vita.
Più che una cronaca di tristezza, un percorso di trasformazione. Più che inconsolabile, inconsolata. La bellezza del mondo intorno coesiste con il dolore, permettendomi di accogliere sentimenti contrastanti nella stessa carne. Una prima volta si intreccia con l’ultimo respiro, un ti amo si lega a un addio, offrendo alla perdita un nuovo significato.
La musica e la scrittura diventano la possibilità di non dimenticare, un mezzo per dare voce all’indicibile. Attraverso i dettagli quotidiani — un pranzo di Natale anticipato con gli amici, lo scricchiolio delle foglie durante una passeggiata sul canale, una meditazione in un centro buddista, una mostra sull’intimità — la tristezza non scompare, ma trova un equilibrio con il desiderio di vivere.
Cosa cerchiamo davvero nella consolazione? Cos’è, esattamente, la consolazione? È davvero un rimedio? O è qualcosa di più sottile e sfumato, che va oltre la semplice guarigione?
Ogni perdita, ogni ferita, ci lascia con un vuoto che sembra impossibile da colmare. Una relazione finita, un sogno infranto o la morte di una persona cara. In questi momenti, cerchiamo istintivamente qualcosa che ci consoli, un gesto, una parola, un’idea che renda sopportabile quel vuoto. Ho assistito a troppi funerali per sapere quanto siano diversi i modi di reagire a frasi di circostanza. Per qualcuno necessarie, per altri completamente inutili.
Siamo esseri fragili, costantemente esposti alle intemperie della vita che scardinano ogni difesa. È allora che cerchiamo conforto: una telefonata con un amico, un libro che ci parla, una passeggiata che ci permette di respirare.
Ma non sempre la consolazione arriva dall’esterno. A volte è un dialogo interno, un atto di auto-riflessione. Scrivere, per esempio, può diventare un atto consolatorio. Non perché le parole abbiano il potere di cancellare il dolore, ma perché permettono di metterlo in ordine, di trasformare un groviglio emotivo in un racconto. È un modo per dare significato a ciò che sembra insensato.
Eppure, la consolazione ha un paradosso al suo centro. Nel momento in cui cerchiamo di lenire il dolore, rischiamo di minimizzarlo. Quante volte abbiamo sentito: “Andrà meglio” o “Il tempo guarisce tutte le ferite”? Queste parole, per quanto bene intenzionate, possono sembrare vuote. Non perché siano false, ma perché ignorano la profondità di ciò che proviamo.
Se guardiamo alla consolazione non come un rimedio ma come una trasformazione, il suo significato cambia. Non si tratta di tornare a uno stato precedente, ma di trovare un nuovo equilibrio. Questo processo non è lineare. Ci saranno giorni in cui il dolore sembrerà insopportabile, e altri in cui sentiremo una strana leggerezza, come se qualcosa dentro di noi si stesse ricomponendo.
Penso al lavoro di artisti e scrittori che hanno trasformato il loro dolore in qualcosa di universale. Emily Dickinson scriveva “Non conosciamo mai la nostra altezza finché non siamo chiamati ad alzarci.”
Non negare il vuoto lasciato dalla perdita, ma costruiscici attorno un nuovo slancio vitale. Inconsolata, inconsolato ma viva, ma vivo perché l’assenza è una parte integrante del nostro essere mortali.
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