Circa un anno fa ho iniziato a sentirmi sola nel mio lavoro di freelance. Mi sembrava di essere arrivata a un punto in cui io da sola, più di quello che stavo già facendo bene, non avrei potuto fare. Ho mandato un curriculum a un’agenzia di naming parigina perché volevo farmi assumere. Desideravo incontrare clienti più grandi, lavorare a più mani sullo stesso progetto, scambiare opinioni, imparare da altri con competenze contigue alle mie, project manager, art director, strategist, designer, video maker e rimettere le mie competenze in una prospettiva più ampia. Essere nel contesto, parte di qualcosa di più grande di me.
L’agenzia non ha mai risposto alla mia candidatura, così il pensiero è passato in secondo piano, perché nel frattempo c’era da portare avanti i progetti in essere, rispondere alle mail, consegnare. Non ci ho più pensato. Fino alla scorsa primavera.
Una grande parte del mio lavoro si consuma nella ricerca e nello studio di argomenti che non sono il mio. Nell’ultimo mese mi sono formata riguardo l’intelligenza collettiva perché sto scrivendo contenuti per Wyde, scuola di connessioni, su questo tema. Più leggevo, più mi rendevo conto che era proprio quella sensazione lì che stavo cercando nel mio tenero, timido tentativo di farmi assumere.
Mi sono fermata a riflettere, per scoprire che in qualche misura c’era qualcosa di simile nella mia vita. Da 7 mesi, infatti, porto avanti un progetto insieme ad altre tre professioniste: si tratta di un prodotto che vorremmo tanto che uscisse a fine 2024. Nato quasi per gioco, sta diventando un affare serio (ma ridiamo molto comunque).
Quello che abbiamo di più prezioso sono le nostre 4 teste, le 4 competenze, i 4 mondi che abbiamo messo sul piatto a disposizione delle altre. Ci incontriamo una volta al mese in call per avanzare e confrontarci: sono momenti ricchi di spunti. Ci diciamo tutto, anche le idee storte, perché spesso insieme riusciamo a raddrizzarle o a farci capire con una battuta, che è una stupidaggine. Non c’è competizione, siamo lì per co-creare qualcosa che non esiste e che conterrà una parte di come siamo e delle nostre competenze.
Senza averlo chiesto, sto facendo esperienza dell’intelligenza collettiva e questi sono i nostri ingredienti:
Obiettivo comune
Diversità
Trasparenza
Empowerment
È qui che mi ricordo una delle lezioni di semiotica che più segnerà la mia storia: “Il tutto è più della somma delle singole parti”.
Questo miracolo del noi lo ritroviamo nella società delle formiche e in quella delle api, ma soprattutto la storia dell’umanità si basa su questo tipo di competenza. La tecnologia, la politica e la cultura esistono solo attraverso questa dinamica. Nessuno di noi può avere successo senza questo potere condiviso.
Il concetto di intelligenza collettiva è stato usato per spiegare molti fenomeni. La possiamo ritrovare in alcune comunità di insetti, nello sport quando lavoriamo in squadra, al lavoro, in tempo di guerra o anche davanti a una macchina del caffè da far funzionare. E anche se il concetto sembra vecchio come il cucco, prima di diventare esplicito e ampiamente utilizzato, non era così scontato.
Uno dei primi a mettere in evidenza l’intelligenza collettiva senza nominarla è Nicolas de Condorcet. Nel XVIII secolo, in pieno Illuminismo, Condorcet sviluppa una teoria secondo cui insieme siamo più saggi che da soli. Giunge a questa conclusione esaminando il contesto delle assemblee. Se in un gruppo aumentano le persone con buona possibilità di prendere la decisione giusta, cresce anche la probabilità di arrivare alla soluzione migliore.
Dopo di lui ce ne sono altri, ma per non annoiarti arrivo diretta al 1971, dallo psicologo David Wechsler, il quale sottolinea che la questione principale non è solo se un gruppo di persone che lavorano insieme sviluppa una risposta migliore, come proponeva Condorcet, ma anche e soprattutto capire se gli individui che lo compongono hanno avuto percezioni o intuizioni che non avrebbe avuto da soli.
Non si tratta di unire le persone e poi queste diventano magicamente intelligenti. Wechsler insiste sull'importanza della partecipazione, della comunicazione e della cooperazione, su una fecondazione incrociata.
Sottolinea l'insidia di confondere intelligenza collettiva con la psicologia di massa, che si applica alle folle indifferenziate, le quali, diciamolo, spesso hanno un peso notevole di stupidità collettiva, come ci dice l’antropologo Gustave Le Bon, nella sua opera principale sulla psicologia delle folle (1895).
Scrive: “Ce n'est pas le besoin de la liberté, mais celui de la servitude qui domine toujours dans l'âme des foules. Elles ont une telle soif d'obéir qu'elles se soumettent d'instinct à qui se déclare leur maître.”
(traduzione bruttina, mia): "Non è il bisogno della libertà, ma quella della schiavitù che domina l'anima delle folle. Hanno una tale sete di obbedire che si sottomettono d’istinto a chiunque si dichiari loro padrone.”
Questa è una citazione agghiacciante, e il libro è stato spesso citato per giustificare la repressione abusiva. Ma è proprio qui che sta il problema. La storia lo ha dimostrato più volte. Riunire le persone nello stesso luogo non è garanzia di intelligenza. Al contrario, il fenomeno di massa a volte accentua comportamenti devianti o violenti, commenti che non avremmo mai osato fare da soli. L'anonimato del gruppo favorisce una riduzione del controllo, una sospensione temporanea delle norme che si oppongono alla violenza. Quanta ombra.
L'intelligenza collettiva per fortuna è luminosa e nel mondo animale è particolarmente attiva e visibile.
Negli anni ’80 gli entomologi Edward Osborne Wilson e Bert Holldobler evidenziano l’intelligenza collettiva delle formiche, o meglio, dichiarano che la colonia di formiche è un superorganismo. Un superorganismo è un insieme di elementi che lavorano in collaborazione per produrre un fenomeno.
La colonia di formiche lavora per obiettivi comuni, per esempio, raccogliere cibo o scegliere un nuovo sito di nidificazione. È un concetto sociale e biologico secondo il quale un’organizzazione, una comunità, trascende i singoli organismi che la compongono.
È la stessa teoria di Thomas Dyer Seeley, che scrive, sull'intelligenza collettiva delle api. E rivela con emozione il notevole meccanismo decisionale democratico, che, alla fine degli anni '80, ha ispirato l'intelligenza artificiale.
“Whit the right organization, democratic groups are remarkably intelligent, often smarter than the smartest individuals in them”.
E se le formiche e le api ci riescono, noi?
Nel nostro lavoro, nelle nostre famiglie, nelle nostre classi, anche quando lo spirito competitivo ci sembra più evidente del legame stesso, l’intelligenza collaborativa c’è. L’abbiamo dentro di noi e non sempre ce ne rendiamo conto.
È in quel database di informazioni che conteniamo nel nostro cervello, che ci strutturano, che influenzano il nostro comportamento e danno forma alle nostre percezioni.
Non ce ne rendiamo conto, ma abbiamo comunque accesso all’intelligenza collettiva attraverso l'apprendimento, attraverso una osmosi quotidiana, per contagio intimo.
Sia che si tenga in mano un cucchiaio sia che si debba costruire una frase di tre parole, la nostra intelligenza, che ci potrebbe apparire individuale, in realtà è parte di una rete di interdipendenze, di informazioni, di esperienze collettive che formano ciò che chiamiamo cultura.
Perché la cultura, nel senso più ampio del termine, inteso come l'insieme delle nostre culture, la nostra lingua, le nostre tecniche, è una magnifica dimostrazione della nostra intelligenza collettiva.
Ci siamo abituati fin dalla nascita. Non sempre ci accorgiamo dei sottili meccanismi che mettiamo in atto per raggiungere i nostri obiettivi: parlarsi, capirsi, lavorare insieme, orientarci nello stesso spazio. Stiamo già dimostrando la nostra intelligenza collettiva.
Ci hanno fatto credere che siamo degli individualisti, ma non è così, se no vivremo nelle caverne. Ma la società per come è fatta, ci fa ragionare per caselle, dove ci infila, e quando ci ritroviamo in una casella ci sentiamo soli e alla fine succede che ci facciamo la guerra per arrampicarci e poter uscire.
Non si tratta di un’illusoria simpatia universale. È una questione di alterità riconosciuta e accettata, che porta con sé la convinzione che la strada da percorrere possa essere spianata solo lavorando insieme.
Grazie Grazie
Per puro caso (?) quello di cui avevo bisogno per stimolare la chiarezza in quello che sto facendo in questo periodo!
Grazie.
un diverso futuro può essere immaginato solo attraverso un processo di intelligenza collettiva intesa come partecipazione all'agire.
grazie ancora