Siamo ciò che raccontiamo di noi
Identità a pezzetti
Credo che guardare i vecchi album di foto provochi vertigini come nessun’altra cosa. Sono strani tutti gli strati di esistenza che accumuliamo in una vita, tutte le persone che siamo stati, tutte le persone che abbiamo conosciuto.
È divertente immaginare che non molto tempo fa il parco giochi dell'asilo ci desse l'impressione di essere un territorio immenso o pensare che solo pochi mesi fa eravamo al settimo cielo quando i nostri genitori ci hanno dato il permesso di uscire. E lo è ancor di più vedere come siamo costantemente presi dal valzer del tempo. Ci sono epoche che si legano senza mai davvero frequentarsi: quelle del liceo, del primo lavoro, del primo appartamento. Quelle dei matrimoni, delle nascite, dei secondi figli. Ci sono quei momenti indecifrabili, quelli in cui cambiano i gusti, i vestiti anche le amicizie. Attraversiamo i nostri strati, componiamo forme astratte con i frammenti che rimangono. Andiamo avanti, dimentichiamo. E ogni tanto ci imbattiamo accidentalmente in una foto precedente. Viene da chiedersi chi eravamo allora e chi siamo oggi. A volte ci incolpiamo, spesso sorridiamo, ci lasciamo sopraffare dalla nostalgia, o forse, semplicemente, siamo felici per essere stati capaci di arrivare fin qui. Quindi, riponiamo la fotografia, finché il nostro presente non diventa un'altra sequenza nel valzer del tempo.
Se ammettiamo di non avere una vita sola, ma mille vite da unire nel presente, quindi noi chi siamo?
Siamo le informazioni che troviamo indicate sul nostro passaporto o sul nostro albero genealogico, siamo quello che dichiariamo quando veniamo interrogati sulle nostre origini o quello a cui miriamo quando cerchiamo di essere noi stessi.
Etimologicamente il termine identità deriva dal latino idem che vuol dire uguale. Se seguiamo la logica, l'identità è quindi ciò che ci rende uguali durante tutta la nostra vita. Ma è davvero possibile essere uguali per tutta la vita?
“Io chi sono?” (domanda marzulliana quanto filosofica). A seconda del contesto risponderemo diversamente: se siamo in ambito professionale tenderemo a valorizzare il nostro percorso di studi, le nostre esperienze, i nostri meravigliosi e pagatissimi stage, la capacità di farcela in certe situazioni.
In ambito privato ci sono molte opzioni: alcuni di noi menzionano la città di nascita o il ruolo nella famiglia (sono la figlia di, la mamma di, pratica molto in voga nelle bio di Instagram), altri preferiscono dichiarare l’età, gli hobby o le origini sociali. I contorni sono diversi per ognuno e c’è spesso una certa forma di frustrazione perché niente sembra mai abbastanza completo per definirci. Vogliamo sempre dire di più. Di più, di più.
Cerchiamo di dare di noi più informazioni possibili agli altri come se chiedessimo a una foto di mostrare tutte le nostre espressioni, tutti i nostri lati, tutte le nostre facce. È impossibile.
Al contrario capita che in certi momenti della nostra vita ci sentiamo definiti da un solo frammento della nostra identità capace di oscurare tutto il resto della nostra persona. Come se quell’unico elemento rendesse tutti gli altri elementi secondari.
Penso sia capitato a molti di noi di definirsi attraverso un complesso che ci ostacola, un fallimento professionale, un fatto doloroso, un'infanzia complicata, una storia finita male. Tutti episodi che non abbiamo digerito e a cui torniamo costantemente come se fosse l'unica cosa da raccontare di noi, come se questo unico momento o tratto caratteriale potesse definirci interamente.
Qualunque sia la sua natura, questo punto identitario finisce per prendere uno spazio sproporzionato e ci fa dimenticare che l'identità non può essere mai solo un singolo dettaglio, per quanto imponente possa essere, perché quello che siamo è tanto misterioso quanto multiplo.
In entrambi i casi, nel tentativo di scattare una fotografia che ci prenda per intero e nella cristallizzazione dell’identità in un episodio singolo, succede la stessa cosa: l'identità ci sfugge.
Quindi alla fine, come si risponde alla domanda chi sono io?
Per guidarci nel nostro cammino, ti propongo d'invitare nel fondale di Immersioni il filosofo Paul Ricoeur.
Paul Ricoeur ci offre una forma di GPS introspettivo per navigare tra due concetti chiave. Da un lato quello della mêmeté (identità idem), dall'altro quello delle ipséité (identità ipse).
Partiamo dalla mêmeté: si riferisce a ciò che di noi non cambia. Sono per esempio, il colore dei nostri occhi, alcuni lati del nostro carattere o il nostro DNA.
Attraverso la mêmeté costruiamo i nostri punti di riferimento, misuriamo tutto ciò che ci rende riconoscibili a noi stessi e anche agli altri, tutto ciò che rimane intatto nonostante il passare dei giorni.
Dalla mêmeté deriva anche la curiosa sensazione che a volte si ha nel rivedere dopo anni, che so, un amico d'infanzia e trovare qualcosa nel suo sguardo o nel suo comportamento o nella sua espressione che ci sembri familiare e che magari ci fa dire “pazzesco, non sei cambiato per niente!”.
Tutti possiamo fare un elenco di ciò che non cambia in noi. Ci sono cose di cui siamo orgogliosi, altre che troviamo detestabili, ingiuste, noiose. Ma gli elementi di questo elenco possono essere tutti cambiati.
Ricoeur ci propone di completare questa idea della mêmeté con un'altra nozione: l’ipséité. Ipse è il contrario di idem, quindi possiamo arricchire un pochino l'etimologia dell'identità affiancando al regime dell’essere, il regime del poter essere.
A differenza di un oggetto che ha una forma e un uso costante, noi cambiamo e per fortuna direi. Anche se certi comportamenti restano ben ancorati al nostro modo di essere, cambiano le vicende, gli incontri, le fasi della vita che ci portano a cambiare parti di noi.
L’identità ipse è l’identità in quanto poter essere diversi da quello che siamo e ci assicura che nel cambiamento non saremo mai estranei a noi stessi.
Dalla bambina che ero alla donna che sono c’è stata un’evoluzione. Non ho più nemmeno gli stessi gusti (se ti dicessi quante volte ho cambiato il mio colore preferito) o gli stessi amici (anche questi, che casino). A volte è difficile persino ricordare chi eravamo, eppure per definire noi stessi usiamo sempre il soggetto IO, qualunque cambiamento sia arrivato nel frattempo.
È possibile perché l'identità è composta da entrambi questi aspetti, una parte fissa che è la mêmeté e una parte dinamica che è l’ipséité.
Abbiamo la possibilità d'integrare tutti i cambiamenti rimanendo la stessa persona. Possiamo sempre dire io nonostante il fatto che la vita sia in continuo movimento. L'identità quindi è un mix tra ciò che si muove e ciò che rimane fisso.
Ma non è tutto. C'è qualcosa di ancora più affascinante nell'approccio di Ricoeur. Tra ciò che resta e ciò che cambia, Ricoeur costruisce un ponte: lo chiama identità narrativa.
Un concetto che compare per la prima volta nel suo libro che si chiama Temps et récit (1985) e si basa sull’ipotesi che possiamo superare l’idea delle due dimensioni, che forse l'identità alla fine è ciò che vogliamo raccontare di noi stessi.
E forse è qui che c'è in gioco l'unica domanda valida, una domanda molto più rilevante di “chi sono io?”, che è “quale narrazione voglio fare della mia vita?”. Attenzione, questo non vuol dire che dobbiamo raccontare necessariamente una storia oggettiva, non si tratta né di una descrizione, né d'inventare niente o raccontare una vita che non abbiamo vissuto, non è così, si tratta di chiederci cosa vogliamo raccontare di noi stessi.
Invece che scegliere di parlare della nostra storia d’amore finita male, delle caviglie grosse che ci fanno vergognare o del diploma che non abbiamo conseguito e che sarà sempre un freno per i nostri desideri futuri, prendiamo possesso della nostra storia, prendiamocene la responsabilità, cambiamola per appropriarci di una che ci faccia andare avanti, che ci faccia venire voglia di proiettarci nel futuro. Ovviamente questa storia non sarà mai del tutto completa perché cambiamo di continuo, ma sarà quella più utile in quel momento.
Alla fine, l'identità personale si costituisce nel corso della narrazione che produce, senza fermarsi sulla stessa dimensione o apparendo solo nel cambiamento. La nostra identità si compie attraverso la narrazione che ne facciamo (grazie alla mia psy per avermici fatto arrivare, ciao Michela!).
La narrazione rinnova la comprensione che abbiamo della nostra vita.
Tutto ciò che viviamo lo possiamo raccontare e fin quando non lo diciamo non ne prendiamo possesso. È così che guadagniamo la libertà di reinventarci.
Questo mese
Dentro BalenalaB: ho parlato di un lavoro completo d'identità verbale che ho fatto per un mio cliente, il ColorHotel.
Ho iniziato a fare ricerca per il romanzo che vorrei scrivere. Mi sono infilata negli archivi del comune di Parigi e non è per niente male.
A Parigi: sono andata a vedere due spettacoli, uno di Jérémy Ferrari a teatro e uno di stand-up con i ragazzi del Paname Comedy Club.
Alla fine del corso di francese ho passato il test Bright con un livello C1/C2.
Bellissime considerazioni!
Mi torna alla mente una frase che avevo letto in un romanzo di Vonnegut: “Siamo ciò che facciamo finta di essere, perciò dovremmo stare bene attenti a quelli che facciamo finta di essere.”
Beato chi stampa ancora le foto:)
Riguardarle può servire, a riconoscersi e a raccontarsi.
Che bello leggerti. Sei brava continua a scrivere!