Sono ricordi precisi che ti chiamano e che aprono finestre. Una parola ascoltata da un’altra bocca, una canzone in coda al supermercato, un oggetto piccolo e insignificante finito dentro un cassetto, una grafia.
Fino a 10 anni fa circa la nostalgia era un’emozione che praticavo con costanza. Ritornare dentro la memoria, non per cercare risposte, ma per prendere per mano le cose che avevo vissuto. I momenti felici, certo. Ma anche quelli difficili, stonati, zoppicanti. Quelli che avevo pure, con sforzi vani, cercato di dimenticare. Poi, ho trovato una certa pace e ho smesso di farlo intenzionalmente perché la nostalgia si fonda su un’illusione sottile: promette ritorni, ma consegna eco.
Il mito del ritorno
All’inizio, la nostalgia era una malattia. Si moriva, letteralmente, di troppo desiderio di casa. A dirlo non sono i poeti ma i medici: nel ‘600, Johannes Hofer coniò il termine unendo nostos (ritorno) e algos (dolore) per descrivere il malessere dei soldati svizzeri al servizio del re di Francia Luigi XIV, strappati ai pascoli e spediti a combattere lontano.
Col tempo, il significato è cambiato: da patologia dell’esilio a forma dolce di malinconia. La nostalgia è desiderio di chi non c’è più, di chi c’era, di chi non tornerà o di chi forse sì, ma mai come prima. La nostalgia è il dolore del ritorno. Non il dolore della partenza o della perdita ma il dolore di ciò che accade quando si torna anche solo con la mente e niente è come ce lo si era raccontato.
Nell’Odissea, questa tensione attraversa ogni pagina: è pothos, mancanza bruciante. Alcuni personaggi si lasciano consumare, come Laerte e Anticlea, padre e madre di Ulisse e si perdono nel ricordo. Altri si difendono negando il ritorno, come Telemaco ed Eumeo. Solo Ulisse trasforma la nostalgia in direzione. Non si arrende, non si protegge. Ulisse impiega vent’anni per tornare a Itaca. Sopravvive a tempeste, naufragi, inganni. Ma quando arriva, la sua isola non è più l’isola. Penelope è invecchiata, il cane è morto, il figlio è cresciuto. Nessuno vuole sentire le sue storie. È tornato, ma non riesce a stare. Vladimir Jankélévitch scrive che “rimpiange l’istante in cui intravedeva Itaca da lontano, quando era ancora promessa e non delusione”. Quel momento sospeso tra la possibilità e la certezza, tra la speranza e la realtà. È lì che abitava la sua gioia. Non nel ritorno, ma nella tensione al ritorno.
Mi sembra che accada qualcosa di simile ogni volta che proviamo nostalgia. Non torniamo davvero. Immaginiamo, ricostruiamo e appena siamo lì, ci accorgiamo che non è come pensavamo. Perché il passato è vivo solo finché resta nel sogno. Appena cerchiamo di afferrarlo, si trasforma in altro. Lungi dal consolarci, si ritrae.
Mi sono interrogata a lungo su come affrontare il paradosso che l’ultima volta di qualcosa non sappiamo quasi mai che lo sarà. L’ultima volta che vedremo una persona, che visiteremo un posto, che assaggeremo i maccheroncini fatti così, che ci sentiremo amati. Lo scopriremo dopo, molto dopo che era l’ultima volta.
Sophie Galabru scrive, in Nos dernières fois - Défier la nostalgie, che le ultime volte sono passaggi più che finali. Che una storia, anche quando finisce, continua a vivere dentro di noi, con un altro ritmo. La nostalgia non nasce solo da ciò che perdiamo, ma da ciò che continua a vivere quando dovrebbe essere finito. E che invece torna di soppiatto con un vestito che non riesci a buttare perché è quello che indossavi quando ti ha abbracciata la prima volta, in una bandierina su Google Maps, nella foto della tomba di Leonard Cohen, nei ricordi di Facebook. Secondo Galabru, il problema della nostalgia non è che ci fa ricordare il passato, ma che ci ancora lì, impedendoci di vedere il presente come terreno vivo e fecondo.
C’è una malinconia particolare che ci prende nei momenti belli, proprio mentre li stiamo vivendo. È la consapevolezza che passeranno. Che ogni risata, ogni carezza, ogni tenerezza, è già un'ultima volta che non sappiamo essere tale. È lì che si annida la nostalgia. Nella consapevolezza che niente resta com’è. Anche la gioia, anche l’amore, anche noi.
Mercoledì scorso camminavo in un quartiere nuovo su un marciapiede molto stretto, mi sono fermata aspettando che una ragazza scattasse la foto di una scritta amour su un muro incastonata su una tavola di cementine dello Scarabeo. L’ho attesa pazientemente. Lei sorrideva, felice, aveva la sua bella foto da condividere; io, senza volerlo, stavo per entrare nei suoi prossimi souvenir. Quando si è girata e ha capito di star bloccando il passaggio, si è scusata e io invece di dirle “non preoccuparti” le ho detto “tanto finisce”.
Mi ha ricordato il finale di Fleabag (grande spoiler nelle prossime due righe). Credo che comprerò questo, che riprende la scena in cui lei dice “ti amo” al prete e lui risponde: “Passerà”.
Forse non mi manca il mio amore, ma l’istante in cui ho creduto che saremmo stati felici ancora. Gli aperitivi sul divano, le scorribande in motorino a Santorini, il saperlo nell’altra stanza. Quel tempo lì che oggi non posso più toccare.
Una delle cose più difficili da accettare, per me, è che certi legami durano anche dopo la loro fine. Come dice Galabru: non si ama solo con il corpo, ma anche con lo spirito. E quello resta. Ecco perché le persone che amiamo non spariscono mai del tutto. Neanche quando non le sentiamo più. Neanche quando non ci vogliono più. Il loro modo di ridere resta dentro molte altre risate del futuro. Il loro profumo ci torna addosso quando meno ce lo aspettiamo. A volte li vediamo in un passante per strada, in una frase detta da un amico. Qualcosa si muove, come a dire: “sono stata/stato parte di te”.
La nostalgia sulla pelle
Il mese scorso, il mio amico Lèo è tornato a Parigi da Goma, in Congo, dove sta lavorando per una ONG. È tornato per farsi finire il tatuaggio che aveva iniziato qualche mese fa sul braccio. Ne abbiamo parlato di questa irreversibilità necessaria che ci serve (anche io ho 4 tatuaggi e sono sempre stati fatti in momenti di trasformazione) da segnalibro, dove è impossibile (almeno ai miei tempi, ora con un po’ di pazienza si può) tornare indietro. Dove un racconto viene inciso sulla pelle. Un rito, un sigillo, una promessa fatta a sé stessi, un atto autobiografico definitivo che vuole dire “grazie a questa cosa che mi è successa, oggi sono anche questo.”
Il tatuaggio è una scelta di permanenza in un mondo che cambia veloce. Un modo per dire: almeno questo resta. Come scrive Pierre Clastres, antropologo ed etnologo, nelle società arcaiche era la tribù a marchiare il corpo. Oggi siamo noi. La memoria prende forma non più solo nella mente, ma sul corpo.
Nasce forse dal bisogno di rendere qualcosa irreversibile, di non lasciarlo fluttuare, di inchiodarlo al presente. Una forma di resistenza all’effimero, un umanissimo tentativo di fermare la corsa del tempo.
A me sembra che sia proprio questo il cuore della nostalgia. Il desiderio che qualcosa non si perda. Che abbia lasciato un segno. Anche piccolo. Anche solo per noi. Il segno che qualcosa, da qualche parte, ha avuto importanza.
La nostalgia è un animale notturno
Pasolini, negli Scritti Corsari, uno dei suoi testi più struggenti, racconta che le lucciole sono scomparse. Non per inquinamento come si potrebbe pensare, ma per l’eccesso di luce. L’umanità ha acceso così tante luci da non riuscire più a vedere quella tenue delle cose semplici. Le lucciole, oggi, potrebbero essere tranquillamente i sentimenti e le posture che fanno poca scena: la tenerezza, la cura, la lentezza, il silenzio. La nostalgia.
Perché probabilmente la nostalgia è diventata una debolezza. Una parola da canzone anni Sessanta. Eppure, è una delle esperienze più profonde del nostro rapporto con il tempo. Non perché ci trascina indietro ma perché, abbracciando la visione di Sophie Galabru, ci ricorda che siamo fatti di passaggi. Di trasformazioni. Di istanti che non tornano e che proprio per questo ci cambiano per sempre. Cresciamo di più quando perdiamo qualcosa che quando la tratteniamo.
Nel suo libro, Le plus court chemin, Antoine Wauters descrive la nostalgia come un “applaudissement du passé.” Un applauso rivolto al passato. In una mano ci sono le lacrime, nell’altra molta gioia.
Nostalgia del futuro
sai la gente pensa a noi
meno di quanto crediamo
e il tempo vola via
insieme a quello che perdiamo
è del futuro che ora ho nostalgia
e se è colpa di qualcuno è colpa mia
è del futuro che ora ho nostalgiaMAMBASSA, Nostalgia del futuro
Quando ho ascoltato la canzone dei Mambassa per la prima volta ero ancora una ragazzina dedita alla malinconia e alla nostalgia. Oggi Nostalgia del futuro, non è solo un bellissimo ossimoro come lo considerai all’epoca ma anche una forma nuova di sguardo. È una nostalgia per ciò che potremmo ancora diventare. Per i luoghi dove non siamo ancora stati. Le voci che non abbiamo ancora ascoltato. Le versioni di noi che devono ancora arrivare.
La nostalgia del futuro si muove nel campo dei ribelli, si rivolta al fatalismo e alla rassegnazione al “tanto è sempre stato così”. È l’idea che qualcosa di noi ci stia ancora aspettando. Più in là. E che possiamo camminare anche portando con noi ciò che è stato. Senza vergogna e senza dover cancellare.
Da diverse parti mi arrivano segnali che non tutto ciò che finisce si chiude e che non tutto ciò che resta, resta uguale. Io che sono abituata a tagli netti e che non indugio nella sofferenza come una volta faccio fatica a crederlo, ma se lo dico qui magari è un augurio. Quando qualcosa si chiude, non è detto che finisca. A volte, semplicemente, anche se è difficile accettarlo, cambia solo forma.
Immersioni è una newsletter gratuita e sempre lo sarà.
Se vuoi sostenere il mio lavoro di ricerca puoi offrirmi un caffè ☕.
In ogni caso, grazie per esserci 🥐
Qui dentro ci sono così tante frasi da fissare, che l'ho salvata per tornare a rileggerla e ripensarci su. Grazie Chiara.
Quante immersioni in questa puntata. La trovo meravigliosa, anche se non ho mai frequentato troppo la nostalgia. Leggendoti, ho pensato che forse la nostalgia è lo sforzo del cuore per riportare a sé la mente. Grazie per la ricchezza di questo articolo.