Ho comprato un Apple Watch, io che il tempo l’ho sempre voluto vivere e mai contare. Da quel momento, invece di controllarlo ho la sensazione che mi sfugga ancora di più. Continuo a desiderare giornate da 26 o anche 30 ore, sperando che l’orologio ne rubi qualcuna a chi non serve e che la aggiunga al mio display.
Tra la cadenza che ci impone la società e il nostro ritmo, quello che ricerchiamo ascoltando il nostro corpo e i nostri desideri, esistono spesso delle tensioni. Possiamo gestire un tempo per noi senza sentirci costantemente fuori fase?
Esiste un ritmo giusto per noi, ma non esiste una ricetta per un ritmo perfetto. La musica della nostra vita non è scritta. È più un'improvvisazione, sensibile alle circostanze e alle ispirazioni del momento. Rousseau, a un certo punto delle sue Fantasticherie dice: “Ho sentito che vivevo” e io lo trovo stranamente raro e meraviglioso. A volte non abbiamo nemmeno la percezione di cosa succede perché siamo così immersi nel fare, nelle cose una dietro l’altra.
Sono le cose che determinano i ritmi nella nostra vita. Ho detto ritmi al plurale, perché ce ne sono tanti a cui mi connetto: quello del lavoro, della coppia, degli amici, dei miei gatti, delle e-mail, degli appuntamenti, della lettura. Sono durate diverse con le quali convivo, conviviamo, ci sincronizziamo. Connetterci con altri ritmi, non umani, come il ritmo di un giardino, che fiorisce, sta, sfiorisce o quello di un cane, basato su stimolo - risposta, che dipendono poco da noi, è un’esperienza polifonica e poliritmica che rende il mondo vario, vivibile e non assurdo.
Il ritmo dentro, il ritmo fuori
Ognuno ha il proprio ritmo. Una frase che può suonare confortante e liberatoria, soprattutto nei momenti di stress, ma che nella quotidianità può rapidamente diventare fonte di frustrazione. Penso al ciclista dalle gambe affaticate che la scorsa settimana ha bloccato una fila di macchine in Boulevard Magenta, o alla ragazza che si ferma in cima alla scala mobile della metro ostacolando chi va a lavoro, oppure al funzionario della Posta che, trattenuto dalle scadenze burocratiche, esaspera la cittadina impaziente con non risposte, o io che sono in ritardo al mio appuntamento e devo dribblare i turisti che occupano tutto il marciapiede mettendosi in riga formando una barriera, che si fermano all’improvviso e mi auto cito, “che non sanno camminare”. La vita urbana, con i suoi ritmi diversi e talvolta contrastanti, non fa che amplificare queste tensioni.
Questa disparità di tempi non riguarda solo la convivenza tra le persone, ma coinvolge anche la sfera professionale e personale. Spesso siamo spinti a rincorrere un ritmo che non ci appartiene, vittime di esigenze esterne o pressioni sociali. Ci emozioniamo, ci affanniamo, ci lasciamo travolgere dal trambusto delle città, dalle scadenze lavorative o dagli impegni familiari. Non è tanto la velocità della vita a essere il problema, quanto piuttosto la mancanza di corrispondenza tra il nostro ritmo interiore e quello esterno, dettato dal mondo che ci circonda. E allora il primo istinto che abbiamo per trovare il giusto ritmo è uscire dalla città e guardare fuori, ai cicli naturali.
La perfezione della natura offre un modello di armonia cosmologica o divina. Così andiamo a fare un retreat nel deserto mettendo insieme mindfulness, yoga e riti sciamanici, ritorniamo alla terra e ai movimenti neo-rurali sognando Comuni e cercando di vivere secondo l'alternanza delle stagioni. La stessa agricoltura biodinamica segue i ritmi lunari e planetari. Tutte queste scelte e prospettive testimoniano il desiderio di riconnettersi a una sorta di perfezione cosmica dove tutto suona una musica dettata da un respiro più grande, dove la memoria del tempo è nella pelle.
Oggi, però, ritrovare il nostro ritmo interiore non è semplice. Jonathan Crary, autore di 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, sottolinea come la nostra vita sia stata stravolta dall’abolizione delle barriere tra lavoro e tempo libero. Viviamo nella connessione perenne, nella disponibilità continua, dove l’alternanza tra giorno e notte, tra lavoro e riposo, sembra sbiadire.
Per sfuggire a questo ritmo infernale, non basta staccare la spina od organizzare un ritiro meditativo. Hartmut Rosa, sociologo e filosofo contemporaneo, propone di entrare in “risonanza” con il mondo, piuttosto che cercare di sfuggirgli. Trovare un modo di danzare con il ritmo del mondo, inventando un "pas de deux" tra il nostro ritmo interiore e quello esterno. Questa armonizzazione non prevede rigidità o controllo totale, ma una variazione continua e dinamica, un adattamento che ci permette di restare in equilibrio.
Prima di lui, altri filosofi hanno immaginato metodi per cercare di coincidere con il mondo. Con la sua “euritmia”, Félix Ravaisson è uno di questi. Teorico dell'abitudine, riconosce che il buon ritmo non è né una questione di metrica né di puntualità ma un’abitudine incorporata, una variazione libera attorno alla ripetizione. Acquisire un'abitudine consiste, per lui, nell'aggiungere un ritmo secondario (un atteggiamento) a un ritmo primario, quello della vita stessa.
“La disciplina permette di trovare l’equilibrio tra l’ampiezza e la velocità.”
Yohann Diniz, campione del mondo di marcia atletica
Il vero tema del ritmo è quindi, sapere chi detta il suo tempo. In altre parole, il rapporto con il tempo resta un rapporto con il potere. E qui entra in gioco il lavoro.
Il ritmo del lavoro
La sveglia del mattino, il beep del badge che segna le ore, le notifiche e i promemoria programmati sul cellulare. Il tempo del lavoro, spesso imposto dall'esterno, scandisce la nostra vita; non sa che farsene del ritmo delle stagioni, se ne frega della nostra voglia di letargo in inverno e di divertimento in estate, snobba gli accadimenti della nostra vita personale che a volte richiede del tempo libero per riprendersi da un lutto, gestire un divorzio o semplicemente per organizzare una visita medica. Anche alle persone più libere negli orari, il lavoro impone un ritmo: quello delle presentazioni, delle deadline, della gara, della vendita da concludere.
In questa temporalità rigida, come si fa a trovare spazi di libertà? Cosa fare, individualmente e collettivamente, per trovare il giusto ritmo, per fluire in un ritmo professionale creativo e appagante? Non ho risposte, ho solo tentativi.
Il lavoro asincrono
Ogni tanto, provo a lavorare al di fuori dell'orario abituale, presto al mattino, tardi la sera, nel week-end, per fare l'esperienza emancipativa del lavoro asincrono, sfalsato rispetto all'orario canonico 9-18.
Questo modo di lavorare mi permette di trovare il mio ritmo, senza essere schiacciata da quello degli altri: di sviluppare, nel silenzio e nella calma, strategie e idee che non potrei proporre nel contesto rumoroso di una casella email in fiamme e di call in batteria. Prendendo spunto dal saggio di Virginia Woolf, si tratta in un certo senso di costruirsi una metaforica stanza tutta per sé in cui avere la possibilità di isolarmi indisturbata per lavorare in modo indipendente e creativo. Oltre a stimolare l'ispirazione, il lavoro asincrono può offrire maggiore libertà nell'organizzazione della propria vita quotidiana. Il compromesso è che poi si rinunci a qualche ora di lavoro sincrono al giorno per non finire in burnout dopo poco.
Secondo un sondaggio realizzato da OpinionWay per Slack nel 2022, il 33% dei lavoratori intervistati ritiene che aiuti a “conciliare meglio la vita personale e professionale”, il 31% a “ridurre la fatica” e il 28% a “ridurre il livello di affaticamento e stress."
Lavorare secondo i propri ritmi non significa ignorare quello degli altri. L'autonomia resa possibile dall'asincronia è messa al servizio di un “risultato collettivo”, dice la sociologa Aruna Ranganathan che avverte della necessità di preservare la qualità e la regolarità delle interazioni sincrone, in particolare per le posizioni “che dipendono dal coordinamento in tempo reale e dalla comunicazione interpersonale, come i segretari, gli assistenti amministrativi e alcune posizioni dirigenziali”.
Restituire un posto al corpo e ai cicli
Facendo un pisolino quando abbiamo sonno, riconosciamo questo semplice fatto: abbiamo un ritmo fisiologico che va ascoltato. Il corpo e i suoi bisogni non sono un peso, sono ciò che ci mantiene in vita. Il filosofo e psichiatra spinoziano Miguel Benasayag raccomanda di «allontanarsi dall'idea che il ritmo individuale e biologico sia qualcosa contro cui combattere, e che bisogna fare di questa vittoria un motivo di orgoglio». Secondo lui è dannoso “vantarsi di non aver dormito tutta la notte per completare un dossier”. Il filosofo denuncia anche l'approccio "degli scienziati della NASA che sono attualmente alla ricerca di metodi per abolire il sonno" e che quindi ci incoraggiano indirettamente a conformarci a un modello "funzionalista" distruttivo, che rincorre la prestazione a scapito della nostra corporeità che richiede tempo per il sonno e le pause.
Accettare la dimensione cronica di certi dolori è un modo per ridare spazio alla fisiologia e alle sue condizioni. "Misure come il congedo mestruale, che offre alle donne che soffrono di dolori durante il ciclo la possibilità di prendersi uno o due giorni liberi, consentono questo riconoscimento del corpo", spiega Miguel Benasayag. Oltre a cedere ai cicli fisiologici, le aziende potrebbero dare maggiore importanza ai ritmi naturali, per esempio organizzando gli orari di lavoro in base alle stagioni. Il filosofo spiega che questi ritmi e cicli ci offrono “una struttura” che dà forma alla nostra vita quotidiana e alla nostra attività professionale. Senza questa considerazione dei cicli e delle stagioni, rischiamo di perderci nella frenesia di un ritmo professionale freddo, astratto e disincarnato.
Farsi assorbire dal vero lavoro
La sociologa del lavoro e ricercatrice del CNRS Alexandra Bidet chiama lavoro reale quei “momenti di assorbimento in un’attività in cui inventiamo un accordo con la nostra attività lavorativa”. Prima di incontrare la dott.ssa Bidet lo chiamavo flow. Questo tempo è prezioso non perché sia necessariamente produttivo ed efficace, ma perché ci mobilita pienamente e suscita il nostro interesse e il nostro profondo impegno. Progrediamo al nostro ritmo, in un equilibrio che ci si addice e che confluisce nel nostro modo di fare e di pensare. Per trovare questo ritmo personale, dobbiamo cercare di liberarci da un’ossessione diffusa nei nostri mondi professionali: voler conformarsi solo alle richieste degli altri. Questo desiderio comprende anche quello che il sociologo chiama “buon lavoro”, che consiste nel “compiere la propria attività soddisfacendo gli standard della professione, le aspettative dei propri colleghi o pari” . Tuttavia, rispondendo solo a standard esterni, è forte il rischio di lasciarci prendere da un ritmo che ci ferisce e ci travolge e, di non riuscire più a svolgere con successo il nostro lavoro.
Se il “vero lavoro” può essere salvifico è perché dipende dal nostro apprezzamento per ciò che facciamo. “Non valorizza lo status, ma la felicità, un equilibrio momentaneamente sperimentato in un lavoro”, spiega Alexandra Bidet. Quando diamo a tutti la possibilità di trovare questo equilibrio, il lavoro può diventare un autentico spazio di gioia.
Ci sono molti lavori a cui potremmo dedicare dodici ore di fila al servizio di un progetto o di un lavoro che ci affascina. Lavorare, nella migliore delle ipotesi, significa stancarsi con piacere. Quando invece gli obiettivi sono lontani o quando siamo in contraddizione con i nostri valori, il nostro rapporto con il tempo diventa conflittuale. Ciò che dà senso alla vita è saper dispiegare la propria personale linea musicale in una relazione che la arricchisce e la modula, aperta alla sorpresa dell'inaspettato. E questo è vivere: abituarsi a cose nuove.
Il ritmo della ri-scrittura
Tenere un diario non è così banale come sembra. Permette di compiere il passaggio tra due mondi, da quello esteriore a quello interiore. È un modo per memorizzare ciò che sta accadendo nella nostra vita, professionale e non. Il filosofo e professore di etica Pierre-Olivier Monteil, dice che raccontare a un amico la nostra giornata - e il diario diventa un po’ un amico con cui confidarsi - significa poter “metabolizzare e integrare, nel proprio corpo e nella propria mente, ciò che è accaduto”. La possibilità stessa di scrivere questa storia è quindi un indicatore molto positivo. Questo dimostra che siamo capaci di appropriarci del tempo del lavoro per renderlo un elemento della nostra traiettoria personale. “Raccontando la mia attività creo una continuità, che contribuisce a formare la mia identità”, sottolinea il filosofo. Al contrario, quando si vive una giornata sconnessa e caotica, scandita da microinterruzioni dolorose ed eventi imprevisti e non correlati, diventa impossibile scriverne un resoconto significativo. “Sono successe così tante cose che non abbiamo i mezzi per incorporarle”, osserva Pierre-Olivier Monteil. Questo è il segnale che non riusciamo più a tenere il passo. «Quando siamo in un’emergenza tale da non riuscire più a trovare il filo delle nostre giornate, è l’identità della persona che rischia, alla lunga, di essere frammentata.”.
Esprimere in parole la nostra vita professionale è un modo per lottare contro questa frammentazione, destreggiandosi tra ritmi diversi. Lasciamo il puro presente per imparare lezioni dal passato e proiettarci verso il futuro. Si tratta, spiega Pierre-Olivier Monteil, di “stabilire scenari che si basino su ciò che abbiamo già fatto, per vedere cosa potremmo fare di diverso”. Possiamo quindi fissarci su un arco temporale lungo e ricco, “essenziale per il processo decisionale”, conclude.
La ricerca del ritmo giusto consiste forse, in ultima analisi, nel ritrovare, durante la nostra giornata lavorativa, quel tempo denso e di qualità, che il filosofo Henri Bergson chiama durata. Laddove il tempo “quantitativo” e “oggettivo” degli orologi “si spezza in frammenti distinti”, la durata di Bergson è omogenea e fluida. Ci permette di creare continuità nella nostra esperienza professionale, unifica i nostri stati mentali e i nostri compiti e collega i diversi interlocutori che incontriamo. Questa ricerca del ritmo giusto non è mai una scienza esatta. Si tratta di tentativi - come questi 4 che ti ho appena proposto - ed errori, di un equilibrio soggettivo precario, che non potrà mai essere ridotto al ticchettio degli orologi e ai segnali acustici delle riunioni a distanza.
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