Nella mia prima casa da sola avevo troppi letti e troppi armadi. Era la vecchia casa di mia nonna, nessuna pianta, nessuna rete Wi-Fi, una porta finestra che dava su un cortile. Solo io, un mazzo di chiavi e la luce che la sera si allungava sui muri nudi. Avevo 29 anni, un contratto a tempo determinato e la testa piena di cose da scrivere. Ricordo che tornavo da lavoro, mi toglievo le scarpe e restavo un po’ in piedi nel centro della stanza, senza fare niente. Non mi mancava nessuno. E non sentivo di dover chiamare nessuno.
Quella casa era tutto tranne che accogliente, lo è diventata poi, con il tempo e la pazienza, eppure mi dava una cosa che non avevo mai avuto prima: la possibilità di starmene da sola senza giustificazioni. Non era la solitudine a pesare, ma la percezione che fino ad allora l’avessi sempre vissuta come una condizione da spiegare, da riempire in fretta con qualcosa o qualcuno. Come se l’assenza di un altro fosse una carenza da colmare.
Nel tempo ho scoperto che la solitudine, più che una mancanza, è un allenamento. Un gesto radicale di presenza, una conquista non lineare: ci sono giorni in cui la cerco come l’aria e giorni in cui ne ho paura come quando penso all’avvenire, alle case di riposo, all’attacco di cuore mentre cammino per strada.
Non è semplice imparare a stare con se stessi in un’epoca che trasforma ogni momento libero in un’occasione per fare qualcosa: postare, rispondere, condividere, aggiornare, partecipare. La solitudine non è prevista, se non come un problema a cui il mondo e la società offrono scintillanti soluzioni in comode app di dating.
Una palestra per il pensiero
Viviamo in un sistema che ha svuotato la solitudine del suo potenziale creativo e l’ha riempita di stigma. Marie Robert in uno dei suoi scritti parla del «capitalismo della solitudine» che si nutre dell’idea che soli non dobbiamo starci mai. Ci incoraggiano ad avere sempre qualcuno accanto: un partner, un team, una community, una rete di contatti. Il valore si misura in condivisione. La solitudine diventa quindi una macchia, un sospetto, un fallimento.
Ma se cambiamo prospettiva, possiamo guardarla non come uno stato di isolamento, ma come uno spazio necessario alla costruzione di un pensiero proprio. Essere soli è una forma di resistenza. Non perché dobbiamo rifiutare l’altro, ma perché è nella distanza che sviluppiamo davvero una visione del mondo che non è solo riflesso di ciò che gli altri pensano di noi.
La solitudine è una palestra per il pensiero. Uno spazio in cui la mente può comporre e scomporre senza dover rispondere subito, senza dover piacere. È il luogo in cui possiamo sentire cosa davvero ci muove, cosa ci stanca, cosa desideriamo.
Un legame che libera
Non sto parlando dell’eremitaggio. Non sto parlando della solitudine come rifugio permanente o come chiusura al mondo. Sto parlando di quella solitudine che ci prepara alla relazione, non che ce la impedisce. I legami sani sono quelli che ci lasciano liberi e libere. E per poter sentirci tali, dobbiamo prima saperci bastare. Non nel senso dell’autosufficienza assoluta (che è un mito), ma nel senso che non stiamo con l’altro per non restare soli, ma per arricchire qualcosa che già esiste. A volte non basta nemmeno farsi più bella la vita insieme, ma questa è un’altra storia.
Quando non sappiamo stare da soli, tendiamo ad attaccarci. Aspettiamo che l’altro ci definisca, ci consoli, ci occupi. Ma un legame costruito sulla fuga dalla solitudine è un legame fragile, che rischia di trasformarsi in dipendenza, in controllo, in bisogno di conferma continua. Non lascia aria, non lascia spazio.
La solitudine vera, quella che abbiamo scelto, quella che abbiamo imparato a non temere, ci aiuta a riconoscere meglio le relazioni che vogliamo davvero. Quelle in cui possiamo esserci con tutto il nostro silenzio e la nostra voce, senza la paura che l’altro se ne vada appena smettiamo di intrattenerlo.
La mobilità dei sentimenti
Il concetto di solitudine ha molto a che fare con il come ci muoviamo dentro i nostri sentimenti. Intorno a me e dentro me, c’è un continuo migrare da una relazione all’altra, da una emozione all’altra, alla ricerca di un posto che ci somigli.
Viviamo in una società che ci ha resi ipermobili fisicamente e affettivamente. Sappiamo traslocare, cambiare lavoro, spostarci da una città a un’altra in poche ore. E sappiamo anche cambiare partner, amicizie, contesti emotivi con la stessa facilità. A volte lo chiamiamo libertà. A volte è solo paura di stare. Di dirci cresciuti e di essere diversi dall’immagine che avevamo di noi.
Restare nella solitudine, anche solo per un po’, è un modo per fermarsi. Per sentire. Per capire se la mobilità che inseguiamo è desiderio o fuga. Se è spinta o reazione. Non sempre serve rispondere subito a un messaggio. Non sempre serve cercare una nuova conversazione quando la vecchia è finita. Ci sono pause che contengono già delle risposte.
Imparare a restare
La solitudine è diventata una condizione normale della nostra epoca, ma non ancora una competenza. Non ci insegnano a stare da soli. Non ci insegnano a distinguere tra la solitudine che cura e quella che fa male.
Eppure dovremmo impararlo. Dovremmo insegnarlo a tutti gli adolescenti nuovi e avrebbero dovuto insegnarlo anche agli adolescenti che siamo stati. Che si può stare da soli senza essere soli. Che ci sono silenzi che fanno compagnia più di certe parole. Che la solitudine non va sempre interrotta: a volte va attraversata.
Una delle cose che ho imparato, lentamente, è che la solitudine è anche un luogo di gioia. Sottile, non appariscente. Una gioia che non si mostra ma che scava. Una forma di intimità che non ha bisogno di testimoni.
Una scelta di altri
Ci sono volte che la solitudine non è una scelta. La solitudine che segue un lutto, una rottura, un amore che finisce, un’amicizia che si spezza: è una solitudine che prima non c’era. Non è neutra, non è scelta, non è costitutiva. È una solitudine che resta dopo che qualcuno se n’è andato. È una solitudine abitata dal fantasma dell’altro.
A differenza della solitudine cercata, quella che ci ritroviamo in conseguenza di una perdita è piena di presenze. L’assenza dell’altro diventa una forma di compagnia inquieta. Lo spazio che prima era condiviso, mentale, fisico, emotivo, adesso è vuoto, ma non vuoto del tutto: è pieno di tracce, memorie, possibilità interrotte. Anche il silenzio non è silenzio vero: è una conversazione mancata, un messaggio che non arriva, un gesto che si ripete nella testa.
Questa solitudine ha bisogno di tempo. È come disintossicarsi da una voce. E in certi casi, più che elaborare l’assenza dell’altro, dobbiamo ridefinire noi stessi senza quello sguardo su di noi.
Quando finisce una relazione importante, una parte della nostra identità crolla. Quando muore una persona che abbiamo amato dobbiamo ricostruirci senza quel pezzo. Riposizionare i nostri pezzi e scoprire talvolta che alcuni non stanno più bene insieme perché manca un raccordo. Perché molte volte non ci siamo limitati a condividere la vita con qualcuno: abbiamo costruito noi stessi dentro quella relazione. E quando quella relazione finisce, quello che finisce non è solo il legame, ma un’immagine di noi che avevamo imparato ad amare.
Per questo motivo, la solitudine dopo una rottura è così difficile: ci chiede di ricostruire chi siamo senza l’altro come specchio. E questo è uno dei passaggi più radicali e delicati della vita adulta. Non è una semplice riorganizzazione del tempo o della casa. È una riorganizzazione del significato.
Ogni volta dopo una rottura, ho sentito il mio corpo ritrarsi. Ho pensato che fosse perché il mio corpo che prima era visto, toccato, accolto improvvisamente sembra estraneo, goffo, inascoltato. In questi momenti ho trovato molto utile camminare, cucinare, nuotare, ballare da sola. Sono gesti che riportano dentro il corpo, senza mediazioni. E che ricostruiscono una forma di presenza, di confidenza, di pelle.
Il capitalismo affettivo e anche quello digitale ci suggeriscono che c’è sempre una nuova connessione a portata di mano. Un nuovo match, una nuova amicizia, una nuova notifica. Ma in questa corsa a riempire il vuoto, rischiamo di saltare la parte più preziosa della solitudine: quella in cui sentiamo davvero cosa ci manca.
Restare soli dopo una rottura è un atto di fiducia verso il tempo e verso di sé. È anche un modo per non trasferire automaticamente il dolore su qualcun altro. La nuova relazione (amorosa o amicale) non deve essere un cerotto: dovrebbe essere un incontro, non una fuga.
Come scriveva Rainer Maria Rilke nelle Lettere a un giovane poeta:
L’amore consiste in questo, che due solitudini si proteggono,
si toccano, si salutano.
Ma per arrivare a quel tipo di amore o amicizia, bisogna avere una solitudine intera e non una solitudine frantumata dalla mancanza o dalla dipendenza. È difficile, sì. Ma è anche una soglia potente.
Relazionarsi è aggiungersi, non completarsi, e il motivo è tutto quello che hai scritto.
Grazie, parola per parola.
Le tue parole sono il regalo bello di cui avevo bisogno in questo periodo complesso. Hai messo in ordine quello che sento in modo confuso e di questo ti ringrazio di cuore. Sei sempre preziosa