Ricordi il giorno in cui stavi preparando quella cheesecake e ti chiedevi cosa sarebbe successo se avessi aperto una pasticceria? E l’attimo dopo, quello in cui la torta era cotta e tu già non ci pensavi più. O quella volta che al saggio della scuola hai recitato la tua parte ricordandoti ogni parola e ricevendo un grande applauso che ti fece pensare di poter arrivare in televisione e coltivare la carriera artistica? Ti ricordi le abilità manuali e tecniche di tua sorella, che ti riparò il motorino a vent’anni e ti chiedi ancora perché invece di quel polveroso ufficio non lavori in un’officina meccanica?
Quante abilità sono sopite in noi e nelle persone che ci circondano? Quante abilità aspettano solo di essere portate alla luce? E le cose che facciamo sono le uniche che sappiamo fare? Sono davvero quelle che sappiamo fare meglio?È possibile che, oltre a scrivere e creare nomi, io sia in realtà un’eccellente psicologa e che lo ignori? Le strade che abbiamo scelto sono le uniche che possiamo esplorare? Di cosa è fatto quel seme che non è germogliato?
Con queste domande c’entra il concetto di potenziale. Per esempio, quando dici che tua sorella potrebbe fare la meccanica di officina, stai dicendo che ne ha la capacità. Lo stesso vale per tuo figlio, che ha un talento per il disegno ed è quindi un possibile artista. Entrambi hanno la capacità, entrambi hanno il potenziale, il che significa che se imparano, se si allenano, se lavorano e se progrediscono, possono diventarlo.
Il potenziale è una sorta di serbatoio virtuale. Rappresenta tutto ciò che possiamo diventare nella vita, tutto ciò che possiamo fare. Un essere o anche un oggetto, per esempio un blocco di marmo, può essere scolpito in un numero infinito di statue ed è quindi potenzialmente tutte queste statue. Come noi, che siamo potenziali portatori di un numero infinito di possibili modi di vivere.
Ma una volta che la statua è stata realizzata, una volta che lo scalpello ha scelto cosa fare con il suo blocco di marmo, la statua esiste. Aristotele direbbe, “è in atto” per indicare sia qualcosa che sta per essere fatto, sia qualcosa che è stato completato.
L'atto riguarda la realizzazione di una delle possibilità. Una volta che il sarto ha cucito il vestito, ne ha realizzato uno e uno solo. Quel vestito è una e una sola delle molte virtualità possibili della stoffa di cui è composto. Se essere in potenza è essere potenzialmente, essere in atto è essere concretamente, realmente. Tua sorella può essere meccanica di autofficina, ma può essere una commercialista, una maestra di arti marziali, una scienziata, una fotografa, un'infinità di cose, in virtù di ciò che fa e pratica quotidianamente.
Per passare dalla potenza all’azione, mi faccio aiutare da Aristotele. Lui usa il termine entelechia (ἐντελέχεια, da ἐν τέλει ἔχειν «essere compiuto, essere in atto») che sta a indicare un certo tipo di attualizzazione. Ma allora qual è la differenza tra l'atto in sé e l'entelechia? Beh, l'entelechia si basa sull'idea che ci possa essere una finalità. L'entelechia è la ragione d'essere di una cosa. Non solo ciò che può essere, ma ciò che è ritenuto più naturale. Il suo scopo. Facciamo un esempio banale, prendiamo un dizionario. Il suo fine è quello di darci delle definizioni delle parole che cerchiamo. Ma qualcuno può usarlo come ferma porte o per rialzare un oggetto. Un altro esempio: una scala di legno può essere usata per accendere un fuoco, ma la sua natura, il suo scopo, è piuttosto quello di permetterci di guadagnare altezza.
L'essere combustibile è una possibile attualizzazione della scala di legno, ma il suo scopo, e quindi quello che chiamiamo entelechia, è quello di essere utilizzato per arrampicarsi. Mi segui? L'entelechia è, in un certo senso, l'attualizzazione perfetta, dove l'essere trova la sua perfezione, la sua ragione naturale.
Potremmo andare ancora più in là e parlare di potenza passiva e potenza attiva. La potenza può essere attiva quando ha la capacità di produrre da sé un'evoluzione verso l’atto che Aristotele chiama forma, mentre è passiva se si limita a subirla. Durante la mia lezione di ceramica ho una potenza attiva: posso creare una tazza partendo dall’argilla. L’argilla invece ha una potenza passiva: può diventare una tazza solo se viene modellata da me, ha bisogno di una forza esterna per diventare un atto.
Perché ti dico questo? Perché questi concetti mi portano verso una domanda: che cosa abbiamo il potere di fare? Su cosa agiamo? Perché a volte agiamo su certe cose che non ci interessano e lasciamo in potenza altre che ci interessano? E qual è la nostra ragione d'essere? Ne abbiamo una? Non si tratta solo di essere sarto, pasticcera o campionessa di arti marziali, ma di capire che c'è un movimento dentro di noi, che siamo pieni di poteri attivi, di capacità che non hanno bisogno del mondo esterno per essere attivate.
Certo che, a questo punto, le domande non finiscono qui e si aprono verso altre domande, se possibile ancora più scomode. Perché viviamo vite che non vogliamo vivere? Vite che a volte sono così lontane dai nostri desideri, dalle nostre convinzioni, dai nostri bisogni e dalle nostre capacità? E se fosse possibile cambiare le cose? Non in modo utopico, ma piuttosto onorando la nostra capacità di trasformarci costantemente, di passare come un cubetto di ghiaccio da uno stato all'altro. Non è vertigine e sicurezza allo stesso tempo, pensare che possiamo realizzare le nostre capacità in qualsiasi momento? Non è forse in questi poteri da attivare che troviamo il rifugio più solido e stabile?
Non voglio spaventarti, ma incoraggiarti ad andare oltre le paure, oltre le sconfitte, a mettere in atto altri talenti.
Vorrei lasciarti con un estratto di un libro, “Isidore et les autres” di Camille Bordas. Spero di essere brava con la traduzione dal francese.
Dovrebbe esserci un programma post-dottorato per imparare a riprendere una vita normale. O un intero programma di dottorato, in realtà, per insegnare a vivere. Studi sulle esperienze di vita, qualcosa del genere. Gli studenti dovrebbero compilare una bibliografia sul tipo di vita che vogliono condurre, e i loro professori li indirizzerebbero verso potenziali partner di vita (amici, amanti) compatibili con i loro obiettivi. La maggior parte dei partner si sarebbe rivelata un vicolo cieco, ma ognuno avrebbe insegnato qualcosa allo studente e gli avrebbe permesso di progredire nella sua ricerca. Il suo relatore di tesi lo aiuterebbe a capire cosa funziona, cosa non funziona, come non perdere troppo tempo... non sarebbe pratico? Si dice che la vera saggezza si acquisisce attraverso l'esperienza di vita, ma c'è sicuramente un altro modo, no? Mi sembra che molte esperienze di vita siano inutili. Dovremmo essere in grado di saltarle e fare solo le esperienze di cui abbiamo bisogno.
Probabilmente sarebbe più rilassante se la proposta di Isidore funzionasse, ma molto meno interessante. Perciò lascio a te farti una strada, con la convinzione che tutti i tuoi potenziali sono pronti a diventare atti.
Riflettere sulle proprie potenzialità può essere rifugio e slancio insieme. Più che altro siamo (stati) abituati a farlo in un'ottica unicamente produttiva e credo che sia proprio lì l'inghippo.
Credo che coltivare la consapevolezza sulle nostre possibilità ci permetta di sentirci liberi di trasformarci e di seguire il flusso della vita. Come hai scritto, siamo in movimento!
Un anno fa la frase "sono immersa in infinite possibilità" mi ha salvato da un immobilismo che mi stava inghiottendo. Cosa è cambiato alla fine? Apparentemente non tanto, ma si è ampliato lo sguardo ed è incredibile come la vita poi ti segua.
Un caro abbraccio.
Bello questo concetto di entelechia di Aristotele.
Abbiamo una meta finale a cui tendere? O scegliersi qualsiasi argilla (qualsiasi campo) ci permetterà comunque di esprimere la nostra matrice?
Ancora mi serve una risposta.
baci Silvia